mercoledì, agosto 30, 2006

Corrire della Sera - 29 agosto ... Dipendenti nullafacenti ...

Tagli di spesa ed efficienza nel pubblico impiego

Il sindacato e i nullafacenti

di Pietro Ichino


Alla proposta di individuare i dipendenti pubblici totalmente improduttivi e di incominciare a tagliare lì, piuttosto che tagliare sugli investimenti o sui servizi pubblici che funzionano (Corriere, 24 agosto), i sindacalisti del settore hanno risposto, come previsto, con un «no» secco: niente licenziamenti; semmai «mobilità» e incentivi. Però hanno riconosciuto che il problema esiste, e in misura non trascurabile. Questo è già un passo avanti notevole: tutti dunque concordano che nell'amministrazione pubblica c'è una quota rilevante di nullafacenti.
Allora, che cosa intende fare di questi nullafacenti il ministro della Funzione pubblica? Continuare a voltar la testa altrove e a pagar loro lo stipendio a tempo indeterminato, mentre si taglia sulla spesa utile e sugli investimenti, sarebbe oggi intollerabile: non dimentichi, il ministro, che non si tratta dei lavoratori deboli e poco produttivi, ma di persone che non fanno proprio nulla, non ci sono e quando ci sono è come se non ci fossero; una categoria che alligna solo nel settore pubblico. È giusto ascoltare con la massima attenzione quel che dice il sindacato, ma nella materia di sua competenza, cioè in quella della protezione dei lavoratori; i nullafacenti, per definizione, non sono lavoratori.
Esaminiamo, comunque, le tesi dei sindacalisti su questo problema. La prima: licenziare non si deve, mai. Ma non sono forse licenziamenti anche i prepensionamenti di impiegati anziani che il governo sta studiando in questi giorni, con il tacito consenso degli stessi sindacalisti? E licenziando gli anziani, non si rischia di privare indiscriminatamente gli uffici pubblici di competenze talvolta preziose e insostituibili? Se ridurre gli organici bisogna, non è meglio incominciare con l'impiegato totalmente improduttivo, riservandogli per due o tre anni un trattamento di disoccupazione pari alla pensione anticipata che verrebbe data altrimenti all'anziano produttivo, e ovviamente verificando che non abbia un'altra occupazione nascosta e che sia davvero disponibile a un'occupazione regolare? Veniamo alla proposta alternativa della «mobilità ».
I sindacati del settore pubblico fino a oggi si sono sempre opposti in modo fermissimo a qualsiasi trasferimento autoritativo di dipendenti pubblici: la «mobilità» che essi propongono è solo quella «volontaria ». Ma questa non risolve il problema: nessun impiegato nullafacente ha mai acconsentito a trasferirsi in un ufficio dove si deve lavorare sul serio. In molti casi, poi, anche il trasferimento autoritativo non risolve il problema: per esempio, se un professore non insegna, perché ha altre cose da fare o perché non conosce la materia che dovrebbe insegnare, trasferirlo altrove significa soltanto infliggere il danno ad altri studenti. I sindacalisti del settore pubblico sostengono poi che il problema potrebbe essere risolto con gli incentivi economici. Tutti noi, però, conosciamo la determinazione con cui loro stessi hanno sempre perseguito gli aumenti salariali indifferenziati e hanno di fatto impedito l'attivazione di sistemi retributivi capaci di premiare impegno e produttività.
È comunque evidente che non può essere un premio di produzione a sradicare il fenomeno dei nullafacenti. A me sembra che la sola soluzione efficace sia quella a) di un organo indipendente di valutazione che individui i nullafacenti, almeno quelli più smaccati (operazione relativamente facile); b) di una norma che stabilisca nella massima inefficienza e inutilità il criterio prioritario di scelta da applicare per la riduzione del personale pubblico, incominciando dai dirigenti; c) diunprocedimento giudiziale nelquale il giudice, quando annulli un licenziamentoimpugnato, accerti altempostesso chi altro debba essere licenziato secondo la corretta applicazione dei criteri stabiliti, previa, ovviamente, chiamata in causa del nullafacente interessato, a garanzia del suo diritto di difesa.
Questa soluzione ai sindacati del settore pubblico non piace? Ne propongano un’altra;manon le chiacchiere che si sono sentite fin qui: una soluzione vera, incisiva, efficace. Certo, per essere efficace qualsiasi soluzione comporterà maggior rigore in un sistemache per decenni è stato intollerabilmente lassista. D'altra parte, la lotta alle rendite—comesi è appenavisto nella vicenda del decreto Bersani — qualche durezza la richiede («la rivoluzione non è un pranzo di gala»). E la posizione di rendita dei nullafacenti del settore pubblicononmerita indulgenza maggiore rispetto a quelle, tutto sommato meno costose per la collettività, dei tassisti edi alcune categorie di liberi professionisti.
Da una parte c'è l'interesse dei nullafacenti a continuare a godere della rendita che finora è stata loro assicurata; dall'altra c'è l'interesse della maggioranza dei lavoratori pubblici—quelli veri—a una retribuzione adeguata, l'interesse dei precari a uscire dall'apartheid cui sono stati finora condannati, l'interesse della collettività a non veder tagliare gli investimenti necessari per lo sviluppo economico del Paese. In questo conflitto di interessi i sindacalisti del settore pubblico da che parte stanno?

29 agosto 2006


Le reazioni dopo l'editoriale del professor Ichino sul Corriere della Sera

Dipendenti nullafacenti, Prodi apre

Cgil: «Diffamatorio come Berlusconi da premier.
La Uil: «Non tocca al sindacato».
Cisl: «Provocazione». Ma i lettori apprezzano


Pietro Ichino dialoga con i lettori su recupero di efficienza del pubblico impiego, nullafacenti e sindacato La proposta di Pietro Ichino, che sul Corsera del 29 ha scritto un editoriale dal titolo «Il sindacato e i nullafacenti», lanciando l'idea di una commissione che valuti quali lavoratori dello Stato sono i più nullafacenti e ne proponga il licenziamento (uno ogni cento era la proposta del giuslavorista) è arrivata anche alle orecchie del presidente del Consiglio. Romano Prodi, intervistato alla festa dell'Udeur a Telese, apre a Ichino pur facendo dei distinguo: «In ogni mestiere servono i controllori- dice il premier- servono i controlli sui professori universitari che non fanno lezione o su chi si dà malato».

Insomma, «il discorso di Ichino sulla necessità seria di controlli anche nella pubblica amministrazione sia giusto, ma dando il diritto ai controllati di difendersi e perciò in questa commissione dovrebbero avere una parola, un ruolo, anche i sindacati». Certo è, conclude Prodi, che «non possiamo permetterci di avere degli intoccabili».Dopo quella di Prodi, arriva la presa di posizione del ministro per le riforme e l'innovazione nella Pubblica amministrazione, Luigi Nicolais (Ds): «Il licenziamento non è la strada migliore per rendere più efficiente la pubblica amministrazione. È preferibile migliorare i sistemi di valutazione, dando la parola ai cittadini, che sono i fruitori dei servizi».

«Nel disegno di legge che sto mettendo a punto è prevista proprio la possibilità per gli utenti di valutare l'efficienza e l'efficacia del lavoro della pubblica amministrazione», ha spiegato Nicolais, prendendo le distanze dalla polemica sui dipendenti pubblici nullafacenti, partita con i fondi di Pietro Ichino sul Corriere. «Come in tutte le amministrazioni esistono elementi di debolezza che non devono far dimenticare però i punti di eccellenza», ha detto il ministro, che ha ribadito l'importanza dell'elemento umano nel lavoro. A difesa dei lavoratori della pubblica amministrazione è intervenuto anche Paolo Nerozzi della segreteria Cgil: «Non esistono nullafacenti - ha detto -. Le responsabilità dell'inefficienza dovrebbero essere ricercate piuttosto nelle dirigenze, non sempre idonee, e gli sprechi nel moltiplicarsi dei consigli di amministrazione e degli enti inutili, rispolverati nei cinque anni di governo Berlusconi». L'editoriale dunque ha innescato un ampio dibattito nel mondo politico e sindacale italiano ma anche tra i lettori che approvano le posizioni del professore, come testimoniano le numerose email che sono giunte in redazione. Tanto che Corriere.it ha ritenuto opportuno aprire un forum sull'argomento, nel quale lo stesso Ichino risponde ai lettori.

Ichino propone di iniziare a tagliare dai dipendenti pubblici improduttivi e nullafacenti piuttosto che dagli investimenti o dai servizi pubblici che meglio funzionano. Ichino, tra l altre cose, propone un organo indipendente di valutazione che individui i nullafacenti, almeno quelli più smaccati. «La posizione di rendita dei nullafacenti del settore pubblico non merita indulgenza maggiore rispetto a quelle, tutto sommato meno costose per la collettività, dei tassisti e di alcune categorie di liberi professionisti», dice Ichino.

Sui dipendenti pubblici il professor Ichino «sbaglia e persevera nell'errore», commenta il segretario generale della Funzione pubblica Cgil, Carlo Podda. «Ichino non dà dati empirici, non fa confronti con il resto d'Europa, né segnala un caso in cui queste ricette abbiano dato risultati. Quella di Ichino è solo campagna diffamatoria, in linea con la posizione sui dipendenti pubblici di Berlusconi quando era presidente del Consiglio. Ichino è rimasto vittima di un colpo di sole».Per una maggiore efficienza della pubblica amministrazione bisognerebbe «semplificare le procedure» piuttosto che «criminalizzare i lavoratori». Lo sostiene il segretario confederale della Uil Antonio Foccillo. «Se le cose non funzionano e ci sono i nullafacenti bisogna vedere perché si permette loro di esserlo. Ci sono modi per verificare chi lavora e chi no. Spetta ai capiufficio e ai dirigenti individuare chi non lavora. Non si capisce perché debba toccare al sindacato».

Il segretario generale della Uil pubblica amministrazione, Salvatore Bosco, dice di «non capire il nesso tra le problematiche sollevate e la posizione del sindacato. Non è con i tribunali speciali o con la logica delle delazioni che si può realizzare l’obiettivo di una pubblica amministrazione più efficiente, ma con la corretta applicazione della normativa che già esiste».«Ichino utilizza un luogo comune con frasi trite e ritrite», secondo il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. «Ooccorre un nuovo piano industriale per la pubblica amministrazione».«È una provocazione che spero e credo non abbia ispiratori nel governo», replica il segretario confederale e responsabile del pubblico impiego della Cisl, Gianni Baratta. «Un atteggiamento di moralizzazione ogni oltre limite che non dà un contributo serio al problema di migliorare l’efficienza dei servizi nella pubblica amministrazione. E poi le purghe appartengono alla cultura bolscevica».«Invece di discutere sull'inefficienza di lavoratori, che giornalmente con il loro impegno consentono alla macchina statale di non fermarsi», afferma Fulvio Depolo dell'Ugl statali, «sarebbe più opportuno attivare un osservatorio con il fine di avviare un serio controllo sugli sperperi nella pubblica amministrazione».

Ma la posizione del professor Ichino ha trovato estimatori tra i lettori, come lo testimoniano le numerose email che sono giunte in redazione.
«Mi auguro che il governo voglia finalmente affrontare il problema storico degli impiegati pubblici 'inesistenti' nullafacenti o meglio attivissimi in lavori produttivissimi solo per il medesimo», scrive Luca Biliotti. «Lo faccia per rispetto dei dipendenti pubblici che lavorano, questi sì che devono essere tutelati dai sindacati».«Mi viene da pensare che ci sia sempre un'eterna volontà a lasciare le cose così come stanno», è l'amara considerazione di Ludovico, 26 anni, laureato precario a 830 euro al mese. «A lasciar cadere e sprofondare questo Paese che sta perdendo tutte le sfide della globalizzazione giorno dopo giorno. Un Paese che ha veramente paura di investire nei giovani».«Non capisco perché non si estende ai lavoratori del settore pubblico la legislazione che regola i rapporti di lavoro nel settore privato», si domanda Alfredo Ancora, di Lecce. «Compreso il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo prevsito dallo Statuto dei lavoratori, che gli stessi sindacati, giustamente, hanno difeso strenuamente pochi anni fa».«Ichino quantifica i nullafacenti intorno all’1%, ma è ottimistico», porta la sua esperienza Sara Smarti, 36 anni, laureata con 110 e lode, titolo di avvocato, vari master e corsi post universitari. «Nella mia amministrazione (lavoro in un ministero) adocchio e croce io licenzierei il 20% del personale perché assolutamente inutile, improduttivo, incapace. Sono di sinistra, ma quello che ho visto in cinque anni di amministrazione mi ha reso spietata con questa categoria di persone. Ma ci sono anche quelli che non hanno perso ancora del tutto l’entusiasmo di lavorare e vorrebbero trovare il modo di farlo».

30 agosto 2006

29 agosto : Oro e Petrolio in calo .........

Petrolio in calo a 69,30 con un max a 70,25 mentre l'ORO dopo un max a 618,70 chiude a 610,00.

Calo per il petrolio dopo che i timori per la tempesta Ernesto si sono ridotti. La tempesta ha raggiunto la Florida ma non dovrebbe creare delle difficoltà per la produzione di petrolio e gas nel golfo di Messico. In uno studio della banca d’investimento UBS, sono stati indicati motivi per squilibri nel mercato del petrolio per almeno i prossimi 5 anni. I fattori dietro questa analisi sono l’industrializzazione dei paesi emergenti con il miglioramento del reddito pro capite in molti paesi, e il fatto che gli investimenti in nuova capacità produttiva non potranno tenere il passo con l’aumento della domanda per motivi legati all’instabilità geo-politica. Ha dichiarato anche che la produzione Opec non ha molti spazi per aumenti nei prossimi anni. Questo fatto sembra di essere confermato dal fatto che diversi membri dell’Opec non producono al massimo della loro quota.

L’oro si sta avvicinando ad un supporto importante a $600. Secondo il World Gold Council, la domanda per la gioielleria nel medio oriente è stata in forte calo con l’aumento dei prezzi. Secondo il Council, la domanda in questa regione è stata in calo di 25% nel secondo trimestre del 2006 rispetto allo stesso periodo del 2005. Il medio oriente è il terzo consumatore più grande di oro nel mondo dopo l’India e l’Asia. Molti osservatori hanno indicato il calo della domanda per la gioielleria come motivo per un futuro calo dei prezzi perché i consumatori sono spinti verso metalli meno costosi. Lo stesso fenomeno si vede anche nei consumi del platino, che viene sostituito dal palladio soprattutto in zone dove i redditi non sono alti come la Cina.

lunedì, agosto 21, 2006

Si era visto bene .....



Non so il come ma loro compravano ... Down Jones a 11.381 mentre il Nasdaq a 2163 e SP500 a 1302.

mercoledì, agosto 16, 2006

Si riparte da qui


Down Jones a 11.230 e Nasdaq a 2.115 e Sp500 a 1.285

Roveraro, confessa l'ex socio

Anche Filippo Botteri crolla davanti agli inquirenti e indica il luogo dell'omicidio, in provincia di Parma

Roveraro, confessa l'ex socio"L'ho ucciso l'8 luglio, all'alba"

La vittima aveva detto ai rapitori: "Non ve la caverete, io vi rovino"

MILANO - "L'ho ucciso l'8 luglio, all'alba". Filippo Botteri, ex socio di Gianmarco Roveraro, ha confessato l'omicidio del finanziere nel corso dell'interrogatorio al quale è stato sottoposto oggi al Palazzo di Giustizia di Milano. Un "doppio interrogatorio", prima davanti al gip Guido Salvini e poi davanti ai pm Mario Venditti e Alberto Nobili, durante il quale il consulente finanziario ha indicato ai magistrati che la Megane Scenic, l'automobile utilizzata per il sequestro, si trova a Mentone, ma soprattutto ha rivelato il luogo in cui è stato compiuto l'omicidio: si troverebbe nel comune di Sala Baganza, in provincia di Parma. La confessione di Botteri completerebbe, dunque, il quadro della vicenda, anche con i dettagli sulle modalità dell'assassinio. La mattina dell'8 luglio, a quanto si apprende, Botteri e Roveraro avevano litigato. E il finanziere aveva minacciato i suoi rapitori: "Non ve la caverete, io vi rovino". Sarebbe stata questa la frase che ha fatto perdere la testa al sue ex socio, che a quel punto avrebbe preso la pistola e sparato all'ostaggio. L'arma, con ogni probabilità, era già stata usata per spaventare Roveraro nei giorni precedenti, dunque era presente nel luogo in cui il finanziere era stato portato dai suoi sequestratori. Dopo l'omicidio, però, Botteri avrebbe chiamato uno dei complici, Emilio Toscani, per dirgli che cosa aveva fatto. Solo in un altro momento, alla presenza di Toscani, che tuttavia non lo avrebbe aiutato, Botteri avrebbe mutilato il corpo di Roveraro per poi portare i suoi resti dove sono stati ritrovati venerdì scorso dagli inquirenti, a bordo di una Honda Legend di proprietà di Toscani.
La telefonata fatta da Botteri a Toscani, in cui gli avrebbe confessato quanto accaduto, non è stata intercettata dagli investigatori, che erano riusciti a mettere sotto controllo i primi telefoni - da quello intestato all'ex socio a quelli dei familiari e amici della vittima - solo a partire dalle 19.30, circa, di quel sabato. Intanto, in giornata, i carabinieri del Ris di Parma hanno compiuto un nuovo sopralluogo, dopo quello effettuato ieri sera, nel cascinale presso Albareto, in provincia di Modena, dove Roveraro è stato tenuto durante i primi giorni del sequestro. Al cascinale, una vecchia proprietà dell'ex Magistrato del Po, ristrutturata di recente, gli inquirenti erano arrivati ieri sera, guidati da Marco Baldi, uno dei tre arrestati con l'accusa di sequestro di persona.

(25 luglio 2006)

Gianmario Roveraro: morire per soldi

Gianmario Roveraro: morire per soldi Perché i collaboratori del banchiere non hanno eseguito gli ordini arrivati via fax da parte di Roveraro stesso? Poteva Roveraro salvarsi o essere salvato? Lui e il suo entourage, abitualmente avevano a che fare con soci "disperati"?

sabato 29 luglio 2006,
di Ornella Guidi

Perché i collaboratori del banchiere non hanno eseguito gli ordini arrivati via fax da parte di Roveraro stesso? Poteva Roveraro salvarsi o essere salvato? Lui e il suo entourage, abitualmente avevano a che fare con soci "disperati"?
Se in Italia si è consumato il sequestro di Gianmario Roveraro con il suo macabro e sconvolgente epilogo, è in Svizzera, a Lugano, nello studio di consulenza internazionale Federico De Vittori che l’intera vicenda ha preso il suo avvio.
Gianmario Roveraro, ligure, nato nel 1936, dopo essere stato, nel 1956, primatista italiano di salto in alto, saltando oltre i due metri, si era laureato in economia, con una tesi sui fondi d’investimento, un argomento pressoché sconosciuto nell’Italia anni ’60 e presto era diventato uno dei finanzieri che contano nel mondo dell’alta finanza italiana, "rischiando" quasi, in un determinato periodo, di mettere in ombra il guru per antonomasia, capo di Mediobanca, Enrico Cuccia.
Ma Roveraro aveva altre mire sugli investimenti e sul terreno degli investitori e i due non entrarono in rotta di collisione; un uomo schivo e molto riservato, membro soprannumerario dell’Opus Dei, potente organizzazione religiosa che più volte, nonostante la presenza di una famiglia con tre figli, lui stesso definirà la cosa più importante della sua vita.
La vita di Roveraro scorre tranquilla, nella piena efficienza e concretezza, due doti che gli vengono attribuite da chi lo conosceva, ha solo qualche problema con Parmalat dal momento che fu lui a portare il titolo in Borsa, un incidente di percorso di cui i giudici l’avrebbero chiamato a rendere conto presto, in un percorso di vita di grande prestigio.
Importante, inaccessibile ai più, lontano dalle ribalte mondane...eppure Gianmario Roveraro, agli inizi degli anni duemila incomincia a fare affari con persone di dubbie capacità e credenziali.
E’ socio di Franco Todescato, lo stesso che nel 2003 verrà arrestato "per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio", e un anno prima, nel 2002, coinvolge quello che diventerà il suo assassino, Filippo Botteri un consulente finanziario di provincia, in un’operazione siglata appunto nello studio De Vittori a Lugano. A Botteri viene prospettato un guadagno di 24 milioni di euro, con aggiunta di alti 6 milioni e mezzo, a fronte di un investimento personale di 250mila euro.
Inizia il gioco delle scatole cinesi, dall’acquisto della società inglese E.D.S. Ltd che vede proprietari Roveraro e Botteri al 50%, i 250mila euro transitano alla società Austrian International Consulting controllata da Todescato; trascorrono i mesi, Roveraro si tira fuori dall’affare, adducendo motivi di non chiarezza, lasciando dentro Botteri che perde l’intera cifra investita.
Anzi stando a Botteri, Roveraro gli avrebbe chiesto altri 100.000 euro per costituire una nuova società adeguata a ricevere la cifra dell’ingente guadagno "realizzatosi" per l’intero affare, Botteri rifiuta, mettendo solo 10mila euro ma poi tra un versamento e l’altro a favore di Todescato, arriva, con i suoi amici di Reggio Emilia, dice lui, a sborsare ancora un 200mila euro circa.
Roveraro continua a mantenere rapporti con Todescato anche dopo l’arresto di quest’ultimo, per aver contraffatto titoli del "Credit Agricol" utili per ottenere nuovi accessi di credito, addirittura, quando Todescato esce dal carcere, gli fa avere 15mila euro in contanti tramite Botteri.
A questo punto potremmo chiederci perché un uomo dello spessore economico e sociale di Roveraro inizia a "confondersi" con degli aspiranti Ricucci, viene da chiedersi se mai, in passato avesse avuto contatti con pesci così piccoli, mangiati in un boccone, se questo che è accaduto è stata una tragica casualità, se ha avuto, lui, la sfortuna di incontrare qualcuno che sentendosi vittima si è trasformato in spietato carnefice tanto che dopo averlo ucciso con un colpo alla nuca l’ha fatto a pezzi con una motosega.
Cosa poteva legare un finanziere del calibro di Roveraro a delle mezze tacche come Todescato, Botteri? Che necessità avrebbe avuto Roveraro di tirare dentro ad un affare da capogiro questo signor nessuno di provincia che sborsando "appena" 250mila euro si sarebbe ritrovato megamiliardario. Se l’affare fosse stato così vantaggioso perché dividerlo con altri, a Roveraro non sarebbero mancati i 250mila euro, il prezzo di un appartamento più o meno di quattro vani...invece insieme vanno a Lugano, comprano una società inglese di comodo, spostano i soldi su una società austriaca del socio di Roveraro e poi i soldi spariscono, persi o non dati, forse l’affare è andato bene e si sono tenuti i soldi o forse invece non c’è stato nessun affare o forse è andato male, per Botteri il risultato è sempre lo stesso, lui e i suoi amici hanno perduto i soldi.
Dopo un periodo di richieste e di minacce al finanziere, Botteri e due complici a cui deve dei soldi, un esperto informatico, Emilio Toscani, e un piccolo imprenditore edile, Marco Baldi che fa da autista, con un blitz a sorpresa, costringono Roveraro mentre rientra a casa dopo una riunione dell’Opus Dei, a seguirli, praticamente lo rapiscono.
Il finanziere telefona alla moglie dicendole che è andato in Austria, certo è strano, partire all’improvviso, senza bagaglio...però la moglie non avverte la polizia, aspetta. All’indomani Roveraro chiede via fax all’ufficio della società Alter Sim che gestisce il suo patrimonio, di sbloccare a suo favore un milione di euro; telefona, compresi i tentativi, una quindicina di volte, allo studio De Vittori di Lugano, insiste per sbloccare il milione di euro.
Il finanziere settantenne è uscito di casa il pomeriggio del 5 luglio per andare ad una riunione dell’Opus Dei, ma non fa rientro, e al mattino successivo inizia a chiedere con insistenza una liquidità di un milione di euro, inoltre non risponde al suo cellulare e quindi non è rintracciabile.
Per questi motivi ora elencati credo si potesse dedurre che Gianmario Roveraro doveva trovarsi in una situazione decisamente anomala e verosimilmente pericolosa ed allora risulta incomprensibile quello che è accaduto.
Sì, perché i collaboratori della sua società ritenendo che Roveraro non avrebbe mai sbloccato un milione di euro con quella procedura, vale a dire via fax, non eseguono l’ordine dato dallo stesso finanziere, in sostanza pur avendo la possibilità di giocare d’anticipo in quanto non si parlava ancora di sequestro, è stato scelto di "proteggere" i conti del banchiere, poi naturalmente si è ricorsi alle forze dell’ordine che hanno bloccato i beni, e Roveraro è stato ucciso da Botteri che evidentemente per arrivare ad organizzare un crimine di questo tipo doveva essere abbastanza su di giri.
E’ probabile che l’ostaggio sarebbe stato ucciso comunque, pare che l’uccisione sia avvenuta dopo il dieci luglio scorso, in seguito alla frase pronunciata da Roveraro riferita ai suoi rapitori <<>>, si deve considerare altresì che se Botteri e gli altri avessero intascato subito il milione di euro, forse si sarebbero un attimo placati, avrebbero cercato di gestire Roveraro e il suo "rapimento" fino ad intascare la cifra pensata di dieci milioni di euro. Con questi primi soldi è probabile che la fase della folle rabbia e del folle rancore sbollisse per lo meno quel tanto da permettere al Botteri di rientrare in sé ed evitare il peggio.
Di fronte ad un regolamento di conti che a Botteri non tornavano, forse anche Roveraro stesso e i suoi collaboratori hanno tenuto un rischioso atteggiamento di intransigenza, questi ultimi a protezione di un capitale che avrebbe potuto essere disinvestito per cercare di salvargli la vita; il fatto che conoscesse i suoi rapitori avrebbe avuto, in fondo, una relativa importanza in un mondo come quello della finanza dove tutto ha un prezzo e spesso certi "affari" sono portati a termine in modo poco ortodosso.
Comunque sia sarebbe stato meglio rischiare di perdere un milione di euro, cifra irrisoria per un banchiere di quel calibro e guadagnare del tempo prezioso, il finanziere a quel punto sarebbe diventato la gallina dalle uova d’oro e difficilmente sarebbe stato ucciso per lo meno in quei momenti, e gli inquirenti erano già sulla pista giusta.
Invece poiché la procedura seguita, sia pure dallo stesso Roveraro, non era quella abituale, per sicurezza, non si sono sbloccati i soldi e Botteri sentendosi preso in giro ancora una volta, ha fatto quello che ormai era il suo unico desiderio dopo quello svanito di recuperare i soldi, cioè si è vendicato, uccidendo barbaramente il povero Gianmaria Roveraro.
IL cinismo più spietato sfociato nel crimine contrapposto ad un "regolare" cinismo a difesa del capitale.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SUL DISSESTO DELLA FEDERAZIONE ITALIANA DEI CONSORZI AGRARI

SENATO DELLA REPUBBLICA--------- CAMERA DEI DEPUTATI
XIII LEGISLATURA



COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA
SUL DISSESTO DELLA FEDERAZIONE ITALIANA
DEI CONSORZI AGRARI
__________


RESOCONTO STENOGRAFICO
DELLA
SEDUTA DI MERCOLEDI' 2 GIUGNO 1999
__________


Presidenza del presidente Melchiorre CIRAMI



I lavori hanno inizio alle ore 19,35
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Audizione del dottor Gianmario Roveraro
PRESIDENTE. La Commissione procede oggi all'audizione del dottor Gianmario Roveraro, che ringrazio per aver accolto, con cortese disponibilità, il nostro invito.
Prima di dare la parola al dottor Roveraro per una illustrazione del ruolo da lui svolto nella vicenda Federconsorzi, avverto che i nostri lavori si svolgono in forma pubblica, secondo quanto dispone l'articolo 7 della legge istitutiva, e che è dunque attivato, ai sensi dell'articolo 12, comma 2, del nostro Regolamento interno, l'impianto audiovisivo. Qualora da parte del dottor Roveraro o di colleghi lo si ritenga opportuno in relazione ad argomenti che si vogliono mantenere riservati, disattiverò l'impianto audiovisivo per il tempo necessario.
Preciso, infine, che dell'audizione odierna è redatto il resoconto stenografico, che sarà sottoposto, ai sensi dell'articolo 12, comma 6, del Regolamento interno, alla persona ascoltata e ai colleghi che interverranno, perché provvedano a sottoscriverlo apportandovi le correzioni di forma che riterranno, in vista della pubblicazione negli Atti parlamentari.
Voglio informare il dottor Roveraro che siamo a conoscenza del contenuto della deposizione fatta alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Perugia il 15 aprile 1996 e del promemoria allegato a quell'interrogatorio. Invito pertanto il nostro ospite, se lo ritiene, a richiamarlo per punti, ma non a riprenderlo per intero. Scelga lei la metodologia di lavoro in modo da lasciare il maggior spazio possibile ai colleghi che vogliono intervenire.
ROVERARO. Volevo premettere che ho avuto modo di vedere il documento soltanto mezz'ora fa, perché la società di cui facevo parte a suo tempo è stata venduta, per cui non ho accesso al materiale.
Personalmente preferirei - se è possibile e se lo ritenete opportuno - ricevere delle domande, perché mi sarebbe difficile riproporre il contenuto del verbale e dell’allegata documentazione.
MANCUSO. Dottor Roveraro, abbiamo qui il verbale della sua assunzione innanzi alla Procura della Repubblica di Perugia e di una sua memoria. Vorrei conoscere i destinatari di questo documento, di questa memoria.
ROVERARO. Il destinatario del documento, se non ricordo male, non fu la procura della Repubblica, alla quale fu dato successivamente. Non ricordo con precisione, ma suppongo che lo consegnammo al professor Capaldo e in parte all'onorevole Andreotti, perché hanno date diverse. Si trattava di memorie che sintetizzavano il nostro punto di vista sulla vicenda.
MANCUSO. Presso chi?
ROVERARO. Ritengo che certamente una delle memorie sia andata all'onorevole Andreotti ...
MANCUSO. Allora Presidente del Consiglio.
ROVERARO. Sì, è per questa ragione che gli fu inviata. Le altre relazioni suppongo siano andate al professor Capaldo.
MANCUSO. Sarebbe opportuno, dottor Roveraro, che ci precisasse la ragione dello stato di difficoltà in cui lei si trova nel reperimento delle fonti documentali.
ROVERARO. Come dicevo prima, la società Akros è stata venduta nel 1998, io l'ho lasciata a metà del 1997, quindi non posso accedere alle informazioni.
MANCUSO. Vorrei conoscere, in sostanza, quando ebbe inizio il suo coinvolgimento nella questione Federconsorzi, con quale oggetto, con quali interlocutori, con quali risultati.
ROVERARO. Devo fare una premessa. Ci siamo occupati della Federconsorzi perché, come banca d'affari, ci occupiamo di molte cose; però, non tutte le cose di cui ci occupiamo portano ad una conclusione.
Noi fummo sollecitati sull'argomento da una persona, che ci chiese un nostro parere sulla parte finanziaria, non di un progetto, ma di un'idea di rilancio dei consorzi agrari (non si parlava della Federconsorzi). Questa persona ci chiese, come società di consulenza che conosceva il mercato finanziario, se l'idea che stava prospettando poteva essere realizzabile sul mercato finanziario.
Le cose sono iniziate - come è detto nel verbale - nella tarda primavera o estate del 1991 - mi sembra di ricordare i mesi di maggio-giugno o di giugno-luglio - e si sono concluse verso la metà del 1992, perché il tentativo di vedere se per noi ci fossero spazi professionali risultò privo di fondamento, nel senso che erano già state prese delle iniziative, tra l'altro era intervenuto il concordato preventivo chiesto per la Federconsorzi, per cui - come ho detto - non ci sarebbe stato per noi nessuno spazio di tipo professionale.
MANCUSO. Quindi?
ROVERARO. Quindi, lasciammo perdere l'argomento.
MANCUSO. Lei finisce con l'avere un qualche ruolo nella faccenda del cosiddetto "piano Capaldo", quello che portò, poi, prima all'ideazione e poi alla costituzione della S.G.R.?
ROVERARO. Non ho avuto alcun ruolo, se non quello di aver parlato con il professor Capaldo e di avergli lasciato dei documenti che presumo - se non sono esattamente gli stessi - siano analoghi e quelli qui distribuiti, elaborati al nostro interno per consegnarli a qualcuno. Quindi, né io né la Akros abbiano avuto alcun ruolo, se non quello di aver comunicato il punto di vista, i documenti e le idee al professor Capaldo.
MANCUSO. E il contatto con il professor Capaldo era in funzione della sua progettata idea...
ROVERARO. Sì, quella eventualmente di intervenire come banca di affari (come altri avrebbero potuto fare) all'interno di questo progetto: le banche di affari sono degli intermediari.
MANCUSO. Ma la società che allora lei presiedeva aveva forse un ruolo non formale, non contrattuale.
ROVERARO. Assolutamente no. Si tratta di quelle iniziative - come ho cercato di far capire prima - che si intraprendono per cercare di individuare possibili affari. Le iniziative sono molte, si propongono i propri punti di vista, ci si presenta con l'intendimento di sviluppare una linea di affari, un progetto, che in questo caso non ha avuto alcun seguito: noi, allora, non avemmo alcun incarico di tipo formale da alcuno.
MANCUSO. Signor Presidente, mi scusi, ma vorrei precisare che il mio non è un atteggiamento inquisitorio, ma siccome manca la premessa di una relazione, devo cercare di trarre gli stessi risultati da un colloquio, che è quello che sto svolgendo - ripeto - non in termini inquisitori.
ROVERARO. No, si immagini.
PRESIDENTE. Lo avevamo detto in premessa: va benissimo.
MANCUSO. Io tengo a queste cose, anche se altri le enunciano solo.
Dunque, così stando le cose, professore, lei, una volta apprezzata la situazione che ci venne prospettata all'inizio, in sostanza si trasse indietro, non ebbe un vero interesse.
ROVERARO. No.
MANCUSO. Ma questo fino a quando si verificò?
Vi fu un secondo momento nel quale, viceversa, lei - non dico come società, ma forse come persona - si rese autore di un piano, di una proposta, di un qualcosa che attenesse al miglior trattamento del dissesto della Federconsorzi?
ROVERARO. Guardi, i documenti testimoniano che ci sono stati due momenti distinti, in questa vicenda. Riguardo al primo, il coinvolgimento da parte nostra è stato soltanto quello di comprendere, di dare un consiglio, di fornire la nostra opinione - per così dire - da "esperti", sulla possibilità di salvare la rete dei consorzi agrari con la sua funzione commerciale. Quindi, l'idea originaria da cui noi partimmo fu proprio questa: i consorzi agrari sono salvabili nella loro totalità (non ricordo quanti fossero all'epoca, ma certamente erano abbastanza numerosi) o soltanto in parte? Questi consorzi agrari (quelli ancora vitali), in base al progetto di massima che presentammo, avrebbero dovuto essere rilevati da una società che si sarebbe costituita tra gli agricoltori; questa società avrebbe avuto bisogno di un certo capitale che, all'epoca, come si evince anche dalla mia precedente esposizione, poteva essere di circa 200 miliardi e a noi si chiese se ci paresse o no ragionevole che il mercato finanziario in generale, e il mondo degli agricoltori in particolare, potesse essere in grado di sottoscrivere 200 miliardi. La nostra risposta fu che probabilmente gli agricoltori non avrebbero trovato particolarmente attraente un'operazione di quella portata, ma che forse fra gli agricoltori ci sarebbero potute essere persone di grande prestigio professionale e che probabilmente si sarebbe potuto costituire un consorzio di banche che avrebbe successivamente collocato sul mercato tutti i titoli.
Questa fu la partenza, e ciò avvenne nella tarda primavera o all'inizio dell'estate del 1991: ci fu chiesta un'opinione e noi fornimmo una risposta.
Successivamente, siccome avevamo fatto comunque un certo lavoro, pensammo di non lasciar cadere completamente il nostro interesse verso gli sviluppi Federconsorzi e, quando venimmo a conoscenza della richiesta del concordato, presentammo una proposta che permettesse di risolverlo in maniera rapida, perché poteva essere un concordato - per così dire - garantito oppure un concordato con la cessione dei beni. Pensammo che la soluzione potesse essere utile a tutti quanti, perché avrebbe preservato al meglio l'avviamento del sistema Federconsorzi e avrebbe consentito di vendere meglio quei cespiti che fossero risultati vendibili.
La condizione per noi fondamentale era che tutti i creditori, tutti gli interessati all'operazione Federconsorzi fossero trattati equamente. Pertanto, l'assunzione del concordato, attraverso la cessio bonorum oppure garantito, doveva essere effettuata soltanto ed esclusivamente dai creditori, da quei creditori che giudicassero per loro interessante farlo, liquidando in base alla percentuale del 40 per cento i creditori che, per varie ragioni, pensavano di non accedere all'operazione. Questo era il presupposto fondamentale.
MANCUSO. In sostanza, se non comprendo male, questo progetto adombrava i lineamenti di quello che poi sarebbe stato, nella seconda parte, indicato come il progetto Capaldo. In funzione di questa similitudine, vorrei sapere soprattutto se e in che misura il progetto Capaldo abbia risentito della sua eventuale collaborazione, nel senso che abbiamo detto, e chi furono gli interlocutori per il convergere di questi studi.
ROVERARO. Devo dire che non so se il progetto Capaldo abbia utilizzato, in tutto o in parte, i suggerimenti che noi avevamo adombrato nei nostri colloqui: questo non lo so. So per certo che il professor Capaldo mai rispose in maniera positiva alle domande che gli ponevamo, quando gli chiedevamo se potevamo in qualche modo collaborare a questo progetto: il professor Capaldo non diede alcuna risposta né noi fummo sollecitati da alcuno ad approfondire le cose che avevamo presentato.
Credo di aver incontrato il professor Capaldo forse due o tre volte: non sono certo se due o tre; non fu, quindi, un rapporto molto assiduo.
MANCUSO. E quali altre personalità…
ROVERARO. Nessun'altra.
MANCUSO. …delle banche creditrici…
In che veste incontrò il professor Capaldo, allora?
ROVERARO. Era il presidente della Banca di Roma.
MANCUSO. E della Banca di Roma incontrò soltanto lui?
ROVERARO. Sì.
MANCUSO. Ed altri no?
ROVERARO. No.
MANCUSO. Nella sua deposizione (mi scuso nuovamente per questa "pioggia di domande", ma il motivo per cui le faccio l'ho già spiegato), lei accenna anche al problema delle banche estere, della sofferenza delle banche estere. Questo aspetto fu oggetto della loro riflessione in questa fase, per così dire, piuttosto indeterminata o fu oggetto di una sua riflessione a posteriori?
ROVERARO. No, perché le banche estere, di cui conoscevamo il rappresentante (perché credo che ogni due o tre anni ne nominano uno, e non era un fatto noto soltanto a noi, perché fu pubblicamente espresso alla stampa), a torto o a ragione (francamente non ho mai approfondito) si lamentavano del fatto che i crediti che loro avevano concesso alla Agrifactoring, comunque al sistema della Federconsorzi, erano concessi allo Stato italiano, il che può apparire singolare perché una banca dovrebbe sapere se Federconsorzi è garantita o meno dallo Stato: comunque è quello che si diceva. Conoscevamo anche il rappresentante delle banche estere.
MANCUSO. Lei reputa che altre persone, intervenute come lei in questa fase che parrebbe piuttosto preparatoria, non conseguente alcun risultato, possano essere utili alla nostra indagine conoscitiva. Mi riferisco ad eventuali collaboratori o altre persone che comunque abbiano avuto occasione di interessarsi.
ROVERARO. Per quanto riguarda i miei collaboratori, si trattava di un gruppo ristrettissimo perché lavoravamo in due, forse in tre, in quanto non fu un progetto molto approfondito. Lascio quindi giudicare a lei se sia opportuno o no. Tenga presente che, con la vendita di Akros, molte persone sono andate via, non sono più in Akros.
Per quanto riguarda altre persone non so dirle; so che molte altre persone, immagino a voi tutte note, si sono interessate ad altri aspetti, ma si tratta di cose che ho appreso dopo per un interesse esclusivamente professionale.
MAGNALBO'. Come abbiamo potuto apprendere lei predispose un piano di fattibilità, un progetto molto articolato e preciso che comprendeva due ipotesi, la prima era il concordato preventivo, l'altra il progetto Fiordaliso, che poi fu abbandonato...
ROVERARO. Erano due aspetti paralleli.
MAGNALBO'. Due aspetti paralleli che potevano contemperarsi, con la società Alfa che doveva essere forse assuntrice del concordato o forse parte della cessio bonorum. Vorrei sapere se la sua estromissione dal tutto avvenne dopo aver avuto un colloquio ed, inoltre, se lei comprese le ragioni, se fossero cioè di natura finanziaria - perché qualcuno magari voleva sostituirla nel progetto che, essendo di tipo economico, poteva portare degli utili - o se ritiene che vi siano state ragioni politiche perché lei era un soggetto terzo rispetto ad altri che, potendo fare la sua stessa operazione, lavoravano sia per Fedit che per istituti bancari.
In secondo luogo, vorrei che lei ci spiegasse le differenze tra il piano Akros e quello Capaldo perché, leggendo quest'ultimo, ho avuto l'impressione che sia una brutale e maldestra semplificazione del piano Akros e, da un punto di vista giuridico, non l’ho capito. La invito dunque a spiegarci effettivamente quali siano le differenze tra il suo piano e quello di Capaldo.
ROVERARO. Rispetto alla prima domanda, preciso che più di un'estromissione si è trattato di un lasciar cadere l'interesse per cui non vi fu alcun colloquio chiarificatore dicendo che non era il caso. Semplicemente cadde l'interesse da parte delle controparti, quindi non conosco e non ho mai compreso quali fossero le ragioni. Considerai allora il fatto non certamente gradevole, ma sul piano anche dei rapporti personali. All'epoca si dissero molte cose, pareva ci fossero interessi economici o politici, si favoleggiava di differenze positive strepitose, cose che francamente non sarebbero esistite.
Sulla differenza tra i due piani non sono in grado di esprimermi perché non ho mai esaminato con cura il piano realizzato, anzi non l'ho mai esaminato, non ho mai fatto il calcolo delle differenze. Posso dire che la mia impostazione era semplice, chiunque avesse esaminato il problema avrebbe compreso che non c'erano molte alternative, la mia era semplice e attuabile.
VENETO Gaetano. Nel verbale di assunzione di informazioni, ai sensi dell'articolo 362 del codice di procedura penale, lei afferma che : "All'incirca nell'estate 1991 si cominciò a parlare nel settore del caso Federconsorzi....". Prima di questo lei dice che la Akros, la società di cui lei era amministratore delegato... lo è ancora oggi?
ROVERARO. Ho lasciato la società nel maggio 1997.
VENETO Gaetano. "La nostra società opera principalmente nel campo dell'intermediazione finanziaria e anche nel campo immobiliare". Vorrei sapere se quando afferma "si cominciò a parlare nel settore" si riferisce a quello finanziario o a quello agricolo.
ROVERARO. A quello agricolo.
VENETO Gaetano. Tant'è che il dottor Forchielli si rivolse alla Akros per un parere. Proseguendo poi nell'esame del verbale emerge che nel settembre-ottobre del 1991 alcune banche straniere con le quali Akros aveva rapporti finanziari avanzano delle lamentele, che ieri sera abbiamo sentito riferire parzialmente anche dal ragioniere Geronzi, concernenti l'esposizione di Agrifactoring; queste banche scottate si rivolgono alla Akros, la quale presenta un piano. Lei afferma che "Non facemmo cifre, in quanto non effettuammo valutazioni accurate né del patrimonio immobiliare, né di quello mobiliare e dei crediti". E' importante chiarire le date, si ricorda se sia stato il settembre o l'ottobre? Infatti nell'estate ci si comincia ad interessare, nel settembre-ottobre le banche straniere...
ROVERARO. Vorrei precisare che le banche straniere non si rivolsero a noi, le banche straniere hanno ampiamente parlato di tutto questo; in un incontro, per altri motivi, con il loro rappresentante cogliemmo anche questo elemento.
Prendemmo in considerazione i dati contabili che furono resi disponibili dal tribunale che aveva proceduto a dichiarare ..... Furono quelli i dati che avevamo a disposizione.
VENETO Gaetano. Quindi, questa vostra valutazione sarà stata effettuata tra settembre, ottobre e novembre.
A questo punto si dice che "il nuovo progetto venne proposto all'allora Presidente del Consiglio, onorevole Giulio Andreotti". Fu un'idea della Akros o avvenne di concerto con le banche?
ROVERARO. No, assolutamente.
VENETO Gaetano. "Il presidente Andreotti consigliò di prendere contatti con il ministro Goria e con il professor Capaldo". Vorrei sapere a quale titolo? Lei ricorda per caso questo incontro, se era presente? E perché il professor Capaldo? Forse perché era un esperto, un professore, il presidente del Banco di Stanto Spirito, quindi uno dei maggiori ammalati?
ROVERARO. Più che quello che ricordo quello che pensai e cioè che il professor Capaldo aveva due vesti interessanti: innanzitutto era presidente di una delle banche maggiormente esposte, in secondo luogo si sapeva che era una persona vicina, era stato consulente della Federconsorzi, della Coldiretti, comunque era una persona che aveva una conoscenza diretta e specifica di queste problematiche.
VENETO Gaetano. Lo sapeva lei o glielo ha detto il professor Capaldo?
ROVERARO. Nell'ambiente lo sapevano tutti, era noto a tutti, così come che Goria era ministro dell'agricoltura.
VENETO Gaetano. Proseguendo nell'esame del verbale: "Il professor Capaldo trovò interessante la cosa e vi furono al riguardo svariati incontri nell'aprile del '92"; incontri che vengono fatti - a quanto ci ha riferito il professor Capaldo - mentre partoriva il suo piano. A quale titolo il professor Capaldo organizzava questi incontri e con chi ? Forse sempre come Presidente del Banco di Santo Spirito?
ROVERARO. Si incontrava con la persona che si interessava al problema in quanto - presumevo io - aveva almeno un interesse: quello di essere il responsabile di una banca particolarmente esposta nei confronti della Federconsorzi.
VENETO Gaetano. Proseguendo: "Apprendemmo quindi sempre dai giornali che nel maggio del '92 il professor Capaldo aveva proposto per il tramite dell'avvocato Casella l'acquisto del patrimonio FEDIT agli organi della procedura" ed ancora "…Questa soluzione non ci colse completamente di sorpresa, poiché all'epoca si aveva notizia che anche altri avessero intenzione di proporre l'acquisto in massa agli organi della procedura…". Non era a conoscenza del piano di Capaldo?
ROVERARO. Non l'ho mai saputo.
VENETO Gaetano. Proseguendo: "Non ho notizie,…, di contatti con la Ferruzzi da parte di Cusani o di altri legati al progetto Locatelli". Conosce il progetto Locatelli?
ROVERARO. Sì, lo conosco.
VENETO Gaetano. Che tipo di progetto è? È una specie di liquidazione volontaria?
ROVERARO. Francamente non lo so perché a me non fu mai presentato. So soltanto che Locatelli era interessato alla questione; mi pare che una volta lo incontrai e mi pose delle domande del tipo a che punto eravamo e che cosa pensavamo, ma in nessun incontro fornì alcuna spiegazione o alcun punto di vista sulla questione.
VENETO Gaetano. Ha mai visto insieme Capaldo e Geronzi?
ROVERARO. No. Vorrei comunque precisare che sicuramente non ho mai visto il professor Capaldo insieme al dottor Geronzi per parlare di tali questioni. Non posso escludere di averli incontrati in altre circostanze.
ALOI. In riferimento ai consorzi agrari provinciali, che credo sia un punto da non trascurare, Ella dice: "La nostra opinione era che non fossero molto importanti le strutture immobiliari dei CAP, che anzi apparivano ingombranti e costose". Le chiedo se questi termini "ingombranti e costose" volessero riferirsi, al di là della situazione, alla Federconsorzi a livello centrale? Il riferimento a questa realtà organizzativa della periferia poteva significare, secondo lei, che vi erano serie preoccupazioni anche sul piano della gestione, con ciò dando un senso più ampio al semplice significato dei termini "costoso ed ingombrante"?
La seconda domanda - e ritorno su una questione posta ieri anche al dottor Geronzi - è a proposito delle banche straniere di cui parlava anche l'onorevole Mancuso: mi riferisco in particolare ad una strana lettera inviata da una banca giapponese alle varie banche in cui si faceva presente che in effetti vi erano serie perplessità e preoccupazioni da parte di tutte le banche straniere. Adesso Ella rende un po' più esplicita questa sua affermazione: "…dette banche si lamentavano di aver finanziato Agrifactoring, credendo di essere garantite dallo Stato e quindi si riteneva da parte loro il sistema italiano inaffidabile".
Le chiedo se si considerava inaffidabile il sistema perché si era in presenza di una garanzia di uno Stato ad un certo punto non più garante o perché, pur essendoci lo Stato ad essere garante, non vi era la garanzia? Da che cosa poteva essere desunta questa inaffidabilità? Da fatti specifici, da situazioni o problemi marginali o da qualcosa che invece investiva tutto il sistema?
ROVERARO. Le sue domande richiederebbero una risposta molto ampia che, tra l'altro, non sono in grado di darle. La mia risposta circa i termini "costoso e ingombrante" è molto specifica: se non ricordo male, si fa riferimento all'idea di costituire una società nuova che rilevi i beni dei consorzi agrari provinciali, il cui capitale venga sottoscritto dagli agricoltori o da altri finanziatori. L'osservazione era relativa esclusivamente alla seguente considerazione: se i miliardi necessari fossero stati 1.000, evidentemente non si sarebbe mai potuto realizzare un progetto di questo genere; affinché si rimanesse nell'ambito dei 200, bisognava non comprare gli immobili.
ALOI. Quindi il significato è letterale.
ROVERARO. Quanto alla seconda domanda potrei svolgere una considerazione: francamente non credo che le banche estere in quella circostanza fecero una gran bella figura. Possono affermare che lo Stato italiano non è attendibile, ma in quello specifico contesto forse hanno detto una cosa offensiva ed infondata.
ALOI. Perché secondo lei le banche straniere si defilarono senza essere, quantomeno, pagate?
ROVERARO. Non saprei dire.
D'ALI'. Poco fa ha accennato al fatto che anche la sua società elaborò un piano di possibile acquisizione da parte dei creditori del patrimonio Federconsorzi. Ha detto che questo piano veniva presentato come un'opportunità per tutti i creditori di poter recuperare una cifra intorno al 40 per cento dei loro crediti. Naturalmente questa fu una risultanza di un esame approfondito circa la possibilità di realizzo dei beni del patrimonio Federconsorzi. Ha anche detto che non ebbe più notizia della sorte di questo piano; da tale considerazione mi sembra di dedurre che esso non fu messo in concorrenza con altri. Vorrei quindi sapere se sia vero che non si procedette nemmeno ad un paragone con la proposta da voi fatta e se effettivamente la previsione di realizzo del 40 per cento fosse molto vicina alla verità, sulla base di un progetto che era a metà strada tra un congruo realizzo ed una liquidazione; quindi, se effettivamente venne considerata nella valutazione di questa proposta di realizzo del 40 per cento - come si usa in campo finanziario - una decurtazione dei valori dei beni, determinata dall'urgenza di procedere al realizzo.
ROVERARO. Abbiamo desunto la percentuale del 40 per cento dal fatto stesso che era stato chiesto un concordato. Per questo bisogna pagare il 40 per cento. Poiché questo è stato approvato anche dai creditori, a maggiore ragione abbiamo desunto che fosse adeguato. Non abbiamo fatto un esame analitico, perché sarebbe stato del tutto spropositato, almeno per le nostre possibilità finanziarie. Quindi lo abbiamo desunto da questo. In secondo luogo, il presupposto fondamentale del nostro piano era che la nuova società che avesse acquisito i crediti avrebbe dovuto essere una società controllata interamente ed espressamente dai creditori che liberamente avessero scelto di farlo, liquidando almeno al 40 per cento quei creditori, presumibilmente minori, che non avessero intenzione di proseguire.
D'ALI'. Lei parla di acquisizione di crediti e anche di patrimonio, cioè parla dell'attivo.
ROVERARO. Sì, dell'attivo.
D'ALI'. Qui c'è un punto molto delicato, rappresentato da una cospicua mole di crediti. E' bene precisare che lei stimò che l'offerta concordataria al 40 per cento - con le precisazioni che ora ha fatto di non essere entrato nel merito specifico dell'analisi del patrimonio - riguardava tutti gli attivi della Federconsorzi.
ROVERARO. Se fosse stato vero, i creditori che si fossero trasformati in azionisti avrebbero assunto il rischio-opportunità di guadagnare di più o di perdere di più; però, per noi era fondamentale, perché altrimenti la par condicio non si sarebbe verificata, che tutti coloro che dovevano partecipare diventassero azionisti, altrimenti non sarebbe stata una cosa opportuna.
D'ALI'. Mi scusi, però il meccanismo di assunzione di questa società nel concordato avrebbe in ogni caso garantito ai non partecipanti un realizzo del 40 per cento.
ROVERARO. Il pagamento del 40 per cento, perché così prevede il concordato.
D'ALI'. Quindi, l'alternativa per i creditori era quella o di avere il 40 per cento certo, oppure di assumere un rischio che avrebbe potuto portarli al di sopra di questa somma, ma anche al di sotto.
ROVERARO. Esattamente.
BUCCI. Vorrei sapere qualcosa di più circa il "progetto Fiordaliso", che la Akros sottopose per vedere di risolvere il problema della crisi della Federconsorzi; nello specifico, quale ruolo era previsto nel progetto complessivo per le associazioni degli agricoltori, in particolare la Coldiretti e la Confagricoltura?
ROVERARO. Tengo a precisare che il cosiddetto "progetto Fiordaliso" non lo abbiamo elaborato noi, ma ci è stato sottoposto da persona che presumibilmente conosceva bene il settore.
Le due confederazioni, la Coldiretti e la Confalgricoltura, - così ci fu detto, ma devo presumere che veramente fosse così perché avemmo anche dei colloqui con i presidenti - erano al corrente del progetto Fiordaliso e, dall'incontro che ho avuto io, e comunque dalle cose che mi riferirono, erano anche d'accordo sulla sua percorribilità.
BUCCI. Se il progetto venne presentato alla Akros e non elaborato dalla Akros, chi erano gli elaboratori?
ROVERARO. Il progetto Fiordaliso è stato elaborato da altri, che ci chiesero un parere di natura finanziaria per sapere se fosse o non fosse realizzabile. Tale progetto significava costituire una holding che rilevasse l'avviamento commerciale di tutta la rete restante o di tutta la rete dei consorzi agrari e che quel capitale fosse sottoscritto dai singoli agricoltori.
Per cui, francamente, l'interesse della Coldiretti o della Confagricoltura è del tutto mediato; nella misura in cui queste associazioni rappresentano gli interessi degli agricoltori dovevano essere d'accordo.
BUCCI. Lei ha detto che il progetto Fiordaliso venne studiato e sviluppato da altri. E' possibile conoscere i nomi di questi "altri"?
ROVERARO. Il progetto Fiordaliso venne da una società di consulenza strategica che si chiama MAC, che noi conoscevamo perché aveva elaborato per noi un progetto proprio nei mesi precedenti, quindi avevamo un rapporto professionale. In quella circostanza ci chiesero se, secondo noi, l'idea, che poi è stata denominata "progetto Fiordaliso", avesse o no un qualche riscontro possibile positivo sotto il profilo finanziario.
Loro hanno elaborato questa idea, non so se poi qualcuno ha mai presentato un progetto Fiordaliso. A noi fu indicato così e noi abbiamo continuato a chiamarlo in questo modo.
BUCCI. L'approvazione o il consenso di massima a questo progetto venne dato dai responsabili delle due associazioni?
ROVERARO. Suppongo di sì, non so in quale forma, ma certamente erano al corrente. Io incontrai i presidenti del tempo, sia dell'una che dell'altra organizzazione degli agricoltori, e in quella circostanza non fu sollevata nessuna particolare obiezione, per cui ho pensato che forse non c'erano delle contrarietà.
BUCCI. Cioè, il fatto che il capitale della holding sarebbe stato sottoscritto dagli agricoltori, parte in contante - quindi con nuove risorse - e parte con l'apporto di quote dei consorzi aveva avuto il consenso di massima.
ROVERARO. Lo presumo, non è che venga fatto un controllo estremamente approfondito. Presumo che non ci fossero delle contrarietà.
PINGGERA. Forse non ho capito bene; mi è sembrato di intendere che le banche straniere non sarebbero state pagate. Vorrei sapere se a lei risulta, perché se non fossero state pagate, neanche in percentuale, allora ricorrerebbe, a mio giudizio, una aperta violazione della par condicio.
ROVERARO. A me non risulta minimamente. Le banche, come tutti gli altri creditori, avrebbero dovuto essere pagate, ma non credo che esistesse un programma di questa natura o, almeno per quanto mi riguarda, non lo so.
PRESIDENTE. Vorrei fare qualche domanda di completamento agli interventi dei colleghi.
Desta perplessità come mai la Akros si interessò alla Fedit, visto che aveva le sue competenze in settori affatto diversi da quelli dell'agricoltura.
ROVERARO. Ma perché non era un'operazione agricola, era un'operazione finanziaria come un'altra. Se si fosse dovuto costituire un società da quotare in Borsa, sarebbe stato esattamente il lavoro che abbiamo sempre fatto.
PRESIDENTE. Però il progetto che voi avevate prospettato si occupava anche di continuare la gestione, non solo della Federconsorzi, ma quanto meno dei consorzi agrari, anche se in una forma più spedita e diversa, così come aveva prospettato il progetto.
ROVERARO. Esatto, per non perdere un avviamento importantissimo, che è l'avviamento commerciale.
PRESIDENTE. Ma sempre nel settore agricoltura.
ROVERARO. Certamente non l'avremmo gestita noi.
PRESIDENTE. Perché qualcuno se ne poteva servire per il piano Locatelli, magari per smerciare merce araba o della "Tamoil".
ROVERARO. Questo francamente non lo so.
PRESIDENTE. Lo rilevo dall'intervista che ha rilasciato Florio Fiorini su "L'Espresso".
ROVERARO. Sì, ma io non ricordo...
PRESIDENTE. Cioè era appetibile, in quel periodo, l'affare Federconsorzi?
ROVERARO. Ma, guardi…
PRESIDENTE. Cioè era un'operazione - seppure legittima sul piano finanziario - di speculazione finanziaria pura e semplice oppure ci si preoccupava del dopo, del destino futuro dei consorzi agrari e di quello che avrebbe comportato anche per le sorti dell'agricoltura e degli agricoltori?
ROVERARO. Nelle nostre riflessioni ci si preoccupava anche del dopo, perché, senza far questo, non sarebbe stato lecito alcun tipo di intervento: se si preserva l'avviamento dei consorzi agrari (che a qualcuno comunque appartengono), nella misura in cui si riesce a farlo, ciò rappresenta un vantaggio per tutti, certamente per i diretti interessati.
Che poi ci potessero essere degli interessi, è una cosa che si può capire, perché la rete dei consorzi è una rete di vendita, e come tutte le reti di vendita non è facilissimo ed è anche costoso impiantarne: è una rete esistente, perché non utilizzarla? Per vendere i prodotti della "Tamoil" o della "Bayer", questo francamente non lo so: forse per tutti e due!
PRESIDENTE. Un'altra domanda, sempre inerente al tema delle banche straniere. Desta molta perplessità il fatto che la situazione creditoria delle banche straniere nei confronti della Federconsorzi (così come di Agrifactoring) non venne sufficientemente evidenziata, cosicché resta l'interrogativo di che fine avrebbero fatto - o che fecero - questi crediti delle banche straniere nei confronti di Fedit.
La sua conoscenza nell'elaborazione del piano le aveva per caso consentito di scoprire che c'era un indebitamento delle banche italiane nei confronti di quelle straniere, e quindi erano "operanti" dei crediti?
ROVERARO. No, a me la cosa non è mai apparsa così. I crediti delle banche straniere sono uguali a quelli delle banche italiane e comunque di qualunque creditore. Quindi non c'è alcun atteggiamento positivo o negativo: si tratta di un credito uguale a tutti gli altri.
PRESIDENTE. Nel suo piano (a pagina 8, punto 2 dell'esposizione relativa ad Agrifactoring), evidenziava che era necessaria la "liquidazione rapida delle banche creditrici di Agrifactoring con vantaggi sia nei rapporti tra il sistema bancario italiano e quello internazionale, sia, con riguardo a quello italiano, per quanto attiene al miglioramento dei ratios". Era avvertita questa esigenza di "togliere" subito i crediti delle banche straniere?
ROVERARO. Ci sono degli aspetti tecnici che in questo momento non saprei - per così dire - ricostruire alla perfezione, ma riguardano il fatto che se io ho un creditore che non vuole raggiungere con me un accordo e vuole essere liquidato, o lo liquido o mi porta ad una procedura concorsuale "inadatta"; l'altra questione è che, come sempre, le opposizioni, fondate o no, creano delle preoccupazioni o dei malumori: quindi, se riesco a ridurre i malumori del sistema bancario internazionale, faccio - per così dire - una cosa buona per tutti, perché l'immagine del Paese (considerando il significato relativo che io do a questa espressione) è comunque favorita e non sfavorita.
PRESIDENTE. Vorrei porre una domanda più politica che tecnica.
Ci furono degli sponsors politici a questo piano Fiordaliso o al conseguente piano, per così dire, "Roveraro"?
ROVERARO. Per quanto mi riguarda, direi di no, nel senso che se torniamo alla domanda precedente...
PRESIDENTE. Mi collegavo proprio alla domanda posta dal senatore Bucci.
ROVERARO. Posso dire che non ho mai avuto rapporti diretti, immediati e continuativi con le organizzazioni degli agricoltori. Non so però se chi abbia ispirato il progetto Fiordaliso siano gli agricoltori della Coldiretti, della Confagricoltura o tutti e due insieme: questo, francamente, non lo so.
PRESIDENTE. In questa circostanza, lei o la sua équipe di lavoro per questo progetto (che è complesso e vorrei dire quasi completo) avete avuto rapporti con l'Opus Dei?
ROVERARO. L'Opus Dei, che io sappia, non si occupa di tali questioni.
PRESIDENTE. Come società finanziaria?
ROVERARO. Come società finanziaria direi proprio di no: non ne abbiamo avuti, perché non c'era motivo di averne.
PRESIDENTE. Questo piano certamente ha comportato un grande impegno, anche dal punto di vista della soluzione di alcune questioni giuridiche, come l'intervento per l'acquisto in massa dei beni prima della fase dell'omologazione e dopo tale fase (che sarebbe stata un'operazione più spedita e più semplice): come spiega il fatto che poi l'Akros si sia "acquietata", pur avendo appreso dai giornali dell'operazione Capaldo, senza quanto meno aver esperito alcun tentativo di ripagare l'impegno che "avevate" messo - lei o chi aveva prospettato il progetto (dico "lei", intendendo l'Akros) -, si sia insomma subito tacitata, se non con qualche rimostranza stizzita che mi pare di leggere dalla deposizione fatta innanzi alla Procura di Perugia?
ROVERARO. Innanzi tutto vorrei dire che quello che può apparire particolarmente complesso e articolato è una riflessione particolarmente semplice, non è una cosa speciale. Certamente abbiamo dedicato delle energie, ma non dissimili da quelle impiegate per altri progetti, come dicevo: non so quale media si possa fare, ma su dieci progetti che si hanno in mente forse solo due o tre si realizzano.
PRESIDENTE. Questo, però, era in diretta concorrenza con il cosiddetto "piano Capaldo". Come mai non avete ritenuto di intervenire, di avanzare le vostre proposte al giudice fallimentare in concorrenza con "il piano Capaldo" (la proposta "Casella" o come la si voglia chiamare)?
ROVERARO. Del piano Capaldo abbiamo appreso a posteriori.
In secondo luogo, per fare una rimostranza lei deve avere un mandato, perché ha legittimamente motivo di farla se rappresenta degli interessi; ma se lei fa un tentativo di concludere un affare e questo non funziona perché qualcuno più bravo, o per altri motivi, è riuscito a fare meglio di lei, purtroppo - come lei sa - non può che contare le spese che ha sostenuto.
PRESIDENTE. Perché lei affrontò la discussione con Andreotti e non direttamente con Goria?
ROVERARO. Perché questa mi sembrava la cosa più semplice. Andreotti era il presidente del Consiglio dell'epoca, Goria era il responsabile del Dicastero dell'agricoltura. Mi sembrò più logico fare così.
PRESIDENTE. Ma era il Ministro che poi decise il commissariamento e gli atti ad esso conseguenti. Quindi, a mio modo di vedere - ma è una opinione - il ministro dell'agricoltura Goria era il suo interlocutore più diretto, visto che, mentre il Presidente del Consiglio si occupava di tante cose, il Dicastero dell'agricoltura si occupava proprio della gestione della Federconsorzi (tant'è che la portò al commissariamento).
ROVERARO. Per quanto ci riguarda, per le attività professionali che abbiamo sviluppato (forse avevamo consulenti un po' rozzi), ritenevamo che il Presidente del Consiglio fosse la persona più adatta o sensibile.
PRESIDENTE. Ricorda quanti incontri avete avuto con Goria?
ROVERARO. Penso uno o due incontri.
PRESIDENTE. E l'oggetto di questa conversazione con Goria quale fu? Trovò delle resistenze o...?
ROVERARO. No, non ho trovato alcuna resistenza, ma nemmeno delle prospettate soluzioni.
PRESIDENTE. Per quanto mi riguarda, ho finito. Se non ci sono altre domande, ringrazio il professor Roveraro per la disponibilità dimostrata a corrispondere alle esigenze conoscitive dell’inchiesta parlamentare.
ROVERARO. Mi scusi, signor Presidente, ma per tutta la serata mi avete definito professore, ma voglio informare i presenti che non lo sono.
PRESIDENTE. Ringrazio allora il dottor Roveraro per aver risposto alle nostre domande.
Dichiaro dunque conclusa l'audizione e rinvio il seguito dell’indagine ad altra seduta.
I lavori terminano alle ore 20,30.

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Ecco il rapporto segreto degli investigatori di Bondi"Operazione Cumberland": la caccia ai segreti dell'ex patrondi

MARCO MENSURATI e LUCA FAZZO

MILANO - Erano sparpagliati per il mondo, i segreti di Calisto Tanzi. Alcuni a tiro d'auto da Collecchio: come l'Ipsum, lo yacht da trenta metri che i detective hanno scoperto nel retro di un cantiere navale a La Spezia. O come l'impressionante elenco di appartamenti posseduti dai Tanzi a Chamonix, sulle pendici francesi del Monte Bianco. Altri segreti erano dall'altra parte della Terra, tra il Brasile e l'Uruguay, dove la fetta più grossa del denaro rubato a Parmalat è svanita nel nulla, ma dove robuste, consistenti tracce di soldi sono state trovate: e sono tracce che parlano dell'arricchimento privato, personale, di Tanzi, dei suoi parenti e dei suoi manager. Ma parlano anche di rapporti inconfessabili, di società schermate per impedire di scoprirne il titolare, di operazioni illecite. E gettano una luce cupa sulle vere ragioni del crac più devastante della storia industriale italiana. Nome in codice, operazione Cumberland. È la caccia grossa voluta da Enrico Bondi, commissario straordinario di Parmalat, ai segreti di Calisto Tanzi. È stata una caccia parallela a quella ufficiale. Mentre due Procure della Repubblica e qualche centinaio di uomini della Guardia di finanza conducevano l'inchiesta per bancarotta ed aggiotaggio, Bondi dava incarico ad uno studio legale di Londra - Weil, Gotshal & Manges - di muoversi per conto di Parmalat. Gli avvocati inglesi si sono rivolti alla più grande agenzia di detective privati del mondo, la Kroll. Una caccia costosa, la lettera d'incarico del 20 febbraio scorso prevede un compenso a Kroll di 100mila euro alla settimana per un primo periodo di dodici settimane, per un totale di 1 milione e 200mila euro. Ma i risultati sono arrivati, più in fretta e più larghi di quelli dell'indagine giudiziaria: perché Kroll non ha bisogno di rogatorie, di interrogatori formali di avvocati. Kroll va là dove ci sono le notizie. E, in un modo o nell'altro, le porta a casa.
Il rapporto è arrivato all'inizio dell'autunno sul tavolo di Enrico Bondi. È un rapporto dal volume imponente, incentrato soprattutto sulla ricostruzione del castello di incroci societari - dalla complessità quasi surreale - che costituiva il lato occulto degli affari di Tanzi. "Abbiamo individuato 8,9 milioni di euro - scrivono i detective - che appartengono a Tanzi e ai suoi complici. Questa cifra non include fondi significativi già individuati dalla magistratura italiana, che ha iniziato le sue indagini due mesi prima di Kroll". E oltre ai contanti, ci sono i beni immobili. A Chamonix, appena al di là delle Alpi, la magistratura italiana non è ancora arrivata. Ma nel rapporto in mano a Bondi si scopre che il centro sciistico è stato trasformato dai Tanzi quasi in un villaggio di famiglia. Grazie alla soffiata di un ex bodyguard del Cavaliere, si scopre che Maria Cristina Tanzi possiede tre appartamenti al condominio Les Evettes, mentre al Relais de Poste possiedono tre appartamenti Stefano Tanzi, due Francesca Tanzi, quattro Giovanni Tanzi e uno Alberto Chiesi, cognato di Tanzi, che ne possiede uno anche al Mamery, davanti al Club Med di Chamonix, mentre la moglie di Tanzi, Anita Chiesi, ha tre appartamenti al residence L'Outa. Un piccolo impero immobiliare, in una delle località turistiche più costose d'Europa, che contrasta singolarmente con la sobrietà di vita dei Tanzi. Altrettanto si può dire della storia dell'"Ipsum", il veliero fantasma scoperto da Kroll. Che Tanzi possedesse uno yacht fantastico era noto: il "Te Vega", costruito nel 1930 per il gerarca nazista Hermann Goering, restaurato da Tanzi nel 1991 e attualmente sotto sequestro. Ma ora ne salta fuori un altro: si chiama "Ipsum", è uno splendore da trenta metri e gli 007 hanno dovuto dargli la caccia a lungo, tra l'Egeo e il Mediterraneo. Alla fine, l'hanno scovato: a La Spezia, nel retro di un cantiere navale, incellofanato e quasi nascosto, accanto ad un'altra barca appartenuta anch'essa - si legge nel rapporto - a Goering. Dettagli di colore, si dirà, buoni più che altro a provocare qualche legittimo travaso al popolo dei bidonati dei bond Parmalat. Ma nel rapporto consegnato a Bondi ci sono anche storie assai corpose. Sono scoperte che Kroll ha fatto soprattutto in Sudamerica. È qui, a Montevideo, che si perdono le tracce della fetta più grossa del tesoro di Parmalat: 1 miliardo e 200mila dollari inghiottiti da una misteriosa società di nome Wishaw Trading. Dove finiscano questi soldi nemmeno Kroll è riuscito a capirlo. Ma il rapporto è esplicito nell'indicare l'inventore del sistema: e punta il dito contro Gianni Grisendi, fino al 2000 manager di Parmalat Brasile, poi transitato nella filiale locale di un'altra azienda italiana destinata al crac, Tecnosistemi, e approdato infine in Cirio: l'operazione Wishaw "è curiosamente simile alla struttura creata da Grisendi per Tecnosistemi", si legge nel rapporto. "Queste strutture appaiono create per agevolare e coprire la sottrazione di fondi". D'altronde "benché Grisendi si sia dimesso da Parmalat nel 2000, è rimasto il referente di molte delle società offshore collegate a Parmalat fino al collasso del gruppo". Poi c'è il capitolo più delicato, quello dove gli investigatori ipotizzano l'esistenza di un lato oscuro di Parmalat. "In numerose occasioni nel corso dell'indagine, varie fonti hanno informato di voci che collegavano Tanzi ad aziende parallele e al crimine organizzato in diversi paesi. Le nostre indagini non hanno trovato conferma di queste ipotesi, benché abbiamo scoperto significativi indizi. Kroll ha indagato sulla possibilità che Tanzi abbia creato una impresa parallela che generava importanti profitti. Le chiavi e i personaggi che collegano Tanzi a una possibile impresa parallela sono: Ettore Giugovaz, Bonatti, Cavaterra; Ecuador; le operazioni in Sudamerica". Del Giugovaz di cui parla Kroll le cronache si erano dovute occupare quando era stato individuato come l'amico che aveva accompagnato Tanzi nel suo ultimo, misterioso viaggio in Ecuador prima dell'arresto. "Kroll ritiene che Giugovaz sia il prestanome di Tanzi per gli affari in Ecuador. Inoltre, Giugovaz ha dei legami curiosi. Era un direttore della Rushmore Holding, una delle concessionarie usate per fare sparire i soldi dalla Wishaw Trading; informazioni collegano inoltre Giugovaz a Pasquale Cavaterra, un commercialista che appare in operazioni di finanziamento sospetto a favore della Hit (l'holding dei Tanzi nel turismo, ndr). Cavaterra ha forti appoggi in Sud America attraverso suo fratello, ambasciatore italiano in Paraguay". E qui Kroll ipotizza, senza fornire troppi dettagli, "il coinvolgimento del gruppo Caltagirone".
(16 novembre 2004)

Parmalat, crac annunciato ...


La truffa di Collecchio smontata dalla magistraturaDa dicembre a oggi chiarite le dinamiche del disastroParmalat, crac annunciato"Fallita già dagli Anni 80"L'ascesa di Tanzi tra massoneria e Opus Deidi

CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO

Se si guarda al crac della Parlamat, la giustizia italiana svela di poter essere anche rapida come una lepre. I fatti sono questi, e occhio alle date, per favore. Il 17 dicembre 2003 la Bank of America svela la "bufala" più farfallina inventata a Collecchio. New York fa sapere, a un'Italia imbambolata dalle menzogne e dai numeri, che il conto corrente intestato a Bonlat presso la sede di New York non esiste. Non c'è. Non c'è mai stato (forse, come vedremo). Come non ci sono i 3, 95 miliardi di euro che avrebbero dovuto esserci a sentire gli amministratori della Parmalat e i revisori dei bilanci. È il sorprendente, straordinario, inaspettatissimo schianto dell'ottavo gruppo industriale italiano. Dieci giorni dopo. 27 dicembre 2003. Sono le otto della sera. Milano. Un investigatore della Guardia di Finanza chiede a un signore ingobbito ma sorridente, reduce da sette giorni in giro per il mondo (Parma, Lisbona, Fatima, Lisbona, Madrid, Quito e Guayaquil ? in Ecuador ? Madrid, Zurigo, Milano, Collecchio): "È lei, il dottor Tanzi?". Calisto Tanzi trova la forza (o l'avventatezza) di fare ancora un mezzo sorriso e ciao ciao alle telecamere prima di infilarsi nell'auto degli investigatori e trasferirsi nel carcere di San Vittore. Novantauno giorno dopo. 17 marzo 2004. Procura di Milano. I pubblici ministeri appaiono stanchi del tour de force, ma alquanto soddisfatti. Ancora 24 ore e sono in grado di chiedere il giudizio immediato contro Calisto Tanzi, i manager di Collecchio, i dirigenti delle sedi estere della Parmalat, i revisori "primari" (Deloitte&Touche) e "secondari" (Grant Thornton), i "controllori" (internal auditors), e tre dirigenti di Bank of America, l'avvocato d'affari Gianpaolo Zini e, infine, come "persone giuridiche" Bank of America, Deloitte&Touche e Gran Thornton. Ipotesi di reato: aggiotaggio, ostacolo alla Consob e concorso nel falso dei revisori.
Il reato di aggiotaggio è disciplinato dall'art. 501 del codice penale: "Chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo dei valori ammessi nelle liste di borsa è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da uno a cinquanta milioni di lire?.". Dicono in Procura: "Sarà un processo senza storia perché gli imputati, da Calisto Tanzi al vero dominus finanziario della società Fausto Tonna, hanno confessato e dimostrato di aver falsificato i bilanci, deformandone le poste, occultandone le perdite, inventato di sana pianta liquidità inesistenti". A giudicare dalle facce rassegnate degli avvocati delle difese i pubblici ministeri non esagerano: l'esito del giudizio appare molto prevedibile. Tira un sospiro di sollievo soltanto Gian Piero Biancolella, avvocato di Tanzi. Il patron di Collecchio, seduto accanto agli uomini di Bank of America, intravede una possibilità di poter ridimensionare le sue responsabilità. Da Milano a Parma. Qui i pubblici ministeri ipotizzano contro Tanzi & soci la bancarotta fraudolenta, la truffa aggravata, il falso in bilancio. Come a Milano, i procuratori non hanno incertezze sulla conclusione del processo. "Le distrazioni di denaro dalle casse della Parmalat sono dimostrate per tabulas e di conseguenza la truffa e il falso bilancio. Contiamo di andare a giudizio entro giugno". Dicembre 2003/Giugno 2004. In soli 180 giorni, indicando responsabilità e assegnando colpe, la giustizia italiana offre una (prima) conclusione al crac industriale e finanziario più clamoroso della storia italiana, un default pari a 14,4 miliardi di euro (quasi 28 mila miliardi di lire), lo 0,7 per cento del nostro prodotto interno lordo. * * * Anche in quest'ultimo atto della Parmalat, come in molti degli atti precedenti, il padrone della scena (e della sceneggiatura) è il ragioniere Fausto Tonna. Tanzi (pare) gliel'ha lasciata volentieri. Gli interrogatori di don Calisto sono sempre zoppicanti, monchi di circostanze e punti fermi. Si sviluppano come un tormentone. Di questo tipo: "E' vero, con promissory notes verso terzi, cambiali finanziarie insomma, abbassavamo l'indebitamento delle società, ma per i dettagli di questa o quella operazione dovete chiedere a Tonna, lui sa tutto? E' vero, per aumentare l'attivo di Bonlat abbiamo fatto degli swaps con il fondo Epicurum che avevamo creato apposta. No, non ricordo quanti. Uno, forse tre, forse quattro? Dovete chiedere a Tonna, queste cose le sa lui?". Alter ego e doppio di Calisto Tanzi. Arrogante. Irascibilissimo. Decisionista. Consapevole di sé fino al punto da coltivare, con la nipote del patron Paola Visconti, l'ambizione di "scippare" al "padrone" addirittura la società (come è emerso in alcuni interrogatori), Fausto Tonna indica ai pubblici ministeri di Milano e di Parma la strada da percorrere e undici tappe da seguire e vagliare. Undici come "i protocolli" per creare dal nulla voci attive nel bilancio e cancellare nel nulla le perdite. Gli interrogatori di Fausto Tonna, le sue visite negli uffici della Parmalat in via Oreste Grassi a Collecchio, diventano così il canovaccio dell'inchiesta e l'intreccio della pubblica ricostruzione della truffa. Il "servo padrone" di don Calisto ha in mano tutti i fili dello spettacolo, quali che siano spettatore e attore. Delle magie finanziarie che hanno tenuto in vita e sui mercati Parmalat, conosce i segreti e il doppio fondo. Dell'inchiesta giudiziaria è il pivot. E' consapevole di poter dire, tacere o dissimulare piegando nella direzione voluta le indagini. Soprattutto sa di poter rallentare o accelerare il gioco del disvelamento. Quanto tempo occorrerebbe ai pubblici ministeri per decrittare i "protocolli" della falsificazione dei bilanci, ammesso che senza il suo aiuto l'impresa riesca? E quanto ancora sarebbe il tempo necessario agli investigatori per correre in tre continenti, dove è presente Parmalat, per rintracciare le prove della truffa e le ragioni del crack? Fausto Tonna regala preziosissimo tempo ai magistrati - non v'ha dubbio - e i magistrati, tra Milano e Parma, non stanno lì a tormentarlo più di tanto. Per il momento, anzi, gliene sono addirittura grati. Chi con entusiasmo ("La collaborazione di Tonna all'inchiesta ha avuto anche un segno etico", si sente dire). Chi con più diffidenza e maggiore pragmatismo: "Sappiamo che Tonna non ci ha detto tutto. Come sappiamo che la sua confessione non scioglie il garbuglio. Semplicemente stiamo facendo di necessità virtù perché non abbiamo le forze né il tempo per dare una risposta a tutte le domande dell'affare e ci accontentiamo, dobbiamo accontentarci delle risposte che ci permettono di istruire il processo con solide fonti di prova". Buona ragione, perché economica, se si ha la toga sulle spalle. Non una ragione adeguata se si vuole capire che cosa è accaduto a Collecchio. Come è potuto accadere? Domande essenziali per comprendere dove il "sistema" finanziario (con i suoi controlli e le sue istituzioni e le sue regole) non ha funzionato. Il tableau disegnato da Fausto Tonna, nella lunga confessione, è minimalista fino al grottesco. Una banda di ragionieri di Collecchio per anni prende per il naso società di revisione, società di rating, banche nazionali e internazionali, analisti finanziari, fondi di investimento, Consob e soprattutto risparmiatori, con pochi tratti di penna, un computer e uno scanner. E' uno scenario che, accanto al buon senso, lascia in un canto troppe questioni. Non solo quella che naturalmente fiorisce sulla bocca di tutti: come è potuto accadere? Ma soprattutto, se Tonna non la racconta tutta, quella essenziale: che cosa è accaduto; da quanto tempo accadeva, e perché? Altri interrogativi ne sono il necessario corollario: chi è davvero Calisto Tanzi? Di quali protezioni ha goduto? Di quali capitali si è avvantaggiato per sopravvivere, e come? * * * "Chi è davvero Calisto Tanzi?" pare la prima domanda da affrontare. Cominciamo con definirlo furbissimo, e non per (non solo per) i trucchi dei bilanci della Parmalat. Tanzi è un furbissimo soprattutto perché ha fatto lievitare di sé, intorno a sé, su di sé, un'immagine efficacissima per il suo marketing personale e vincente per il marchio dell'azienda di famiglia. Religiosissimo. Morigeratissimo. Perbenissimo. Attaccatissimo alla moglie e ai figli (che poi curiosamente coinvolgerà nella catastrofe e rovinerà). Modernissimo imprenditore: non per caso, si diceva, Parmalat è l'unico marchio "globale" del Paese. Unicamente interessato ai prodotti delle sue fabbriche, e a null'altro. (Null'altro, se si esclude il football). Bene, ma era, è davvero così Calisto Tanzi? Per dirne una. Leggi che, nella cena di celebrazione in Italia dei cento anni della Chase Manhattan Bank, lo avevano sistemato alla sinistra di David Rockfeller che aveva alla sua destra Gianni Agnelli. Quella seggiola accanto al banchiere americano lo assegna a un empireo industriale, ne testimonia il successo e il prestigio personale, la collocazione in un ambito internazionale che nessun industriale italiano ha mai toccato, se non l'Avvocato e per via diciamo così "dinastica". Scopri poi, però, che non è vero niente, che quella storia è una delle tante favolette della storia di Tanzi. Chi c'era quella sera ricorda: "La cena è del 1994 e Tanzi non era seduto né alla destra né al tavolo di Rockfeller, per l'ovvia ragione che nessuno è tanto matto o scortese da far sedere chi non parla una parola di inglese accanto a chi parla solo inglese. Sicuramente Tanzi sedeva a uno tavolo importante, ma non accanto a Rockfeller. Quel che è certo è che la cosa non sembrò allora dare a Calisto alcun brivido o gratificazione. E' un pessimo conversatore e le occasioni mondane in società servivano soltanto ad appagare la sua ansia di offrire un'immagine di sé e del suo nome. Non aveva alcun interesse a conoscere Rockfeller, né era curioso di scambiarci due parole". Così era fatto, così è fatto don Calisto. * * * "Apparire" è apparso a Tanzi sempre più essenziale che "essere". Apparire "liquido", molto "liquido" era, poi, il primo degli imperativi della sua strategia. Liquido, Tanzi? Anche questa era una bufala. Parola di un banchiere: Gianmario Roveraro, che organizzò per Parmalat la quotazione in borsa alla fine del 1990. "La collocazione delle azioni - racconta Roveraro - aveva avuto, prima del nostro arrivo, qualche difficoltà per un motivo noto a tutti: Tanzi non pagava i fornitori. Lo sapevano tutti tra l'Emilia e la Lombardia, così le banche erano sul "chi vive" e prudenti i risparmiatori". Tanzi non pagava perché le casse della Parmalat erano stente, perché - in quel 1989 - era già ridotto maluccio. Tanto che, appena due anni dopo la quotazione in borsa, è costretto a chiedere, con un secondo aumento di capitale, ancora denaro fresco al mercato. L'aumento di capitale è di 430 miliardi. Per la metà lo avrebbe dovuto conferire la famiglia di Collecchio. Ma lo fece e, se lo fece, dove prese il denaro? "Mah! - sospira Roveraro - Allora Tanzi mi disse che aveva attinto al patrimonio della moglie". Per 215 miliardi? "Così mi disse e io gli credetti anche se cominciai ad avere dei dubbi quando, subito dopo, chiese a me come all'avvocato Sergio Erede e a Renato Picco (Eridania-Ferruzzi) di lasciare libero il posto nel consiglio d'amministrazione che da quel momento è stato sempre composto da familiari di Tanzi o da dipendenti della Parmalat". Le manipolazioni di bilancio cominciano in quell'anno, dunque, con le poste che la famiglia doveva conferire all'aumento di capitale. "E' - scrivono i pm di Milano - riscontrare oggettivamente che la contabilità del gruppo Parmalat è stata totalmente falsificata quanto meno dal 1990". A voce un pubblico ministero dice di più: "Saremo in grado di dimostrare che, già alla fine degli anni Ottanta, la Parmalat era tecnicamente fallita". Tecnicamente fallita alla fine degli anni Ottanta. Si sa come don Calisto si salvò in quell'occasione. Ricorse ai buoni uffici di Giuseppe Gennari, un finanziere tanto oscuro quanto aggressivo che gli fu presentato da Mario Mutti, gladiatore dello "stay behind" e massone. Meno di pubblico dominio è che la società di Gennari, la Finanziaria Centronord (Fcn), come ricorda Florio Fiorini che vi investì una parte della sua liquidazione dell'Eni, fosse "più o meno una società di strozzo che erogava modesti prestiti a piccoli imprenditori, a commercianti e artigiani scontando i crediti presso il Monte dei Paschi di Siena dov'era direttore generale Carlo Zini che la Fcn aveva fondato e poi abbandonato". Sarà per questi nomi e questi metodi e questa storia che il 1989 e il 1990 sono gli anni più oscuri dell'avventura di Tanzi. In una delle principali merchant bank del tempo si ritenne (lo ha ricordato Marco Vitale), che la società fosse "opaca, la natura dei nuovi capitali entrati ambigua, la fiducia nell'imprenditore Tanzi bassa". Non si comprende infatti con quali risorse Tanzi sia entrato, con la finanziaria di famiglia (la Coloniale), in Fcn e con quali quattrini Gennari abbia potuto fare ingresso nella Coloniale prima e in Parmalat poi (fino a possederne, a sentir lui, più del 50 per cento). Un uomo d'affari di Milano seppe, qualche tempo dopo, che "fu il gran maestro della massoneria Armando Corona a salvare il cattolicissimo Tanzi". Non ci mancava che questa. La massoneria. Il rumor, senza conferma, si diffonde. E ingrassa se si prende per buona la convinzione che il Monte Paschi fosse controllato dai massoni toscani e che a mediare tra Tanzi, la banca di Siena e Gennari fosse, come s'è detto, il massone Mario Mutti. Guai però a parlare di massoneria con Carlo Zini che, dei Paschi, era in quegli anni provveditore (direttore generale). "Ma quale massoneria - dice oggi - Che bisogno della massoneria aveva Tanzi! In quel tempo era la politica a governare il credito. La deputazione del Monte dei Paschi era composta con il bilancino. Otto membri. Tre alla Dc, due al Pci e due al Psi, uno alternativamente al Psdi e al Pri. Il provveditore nominato dal ministro del Tesoro. Tanzi non aveva bisogno dei massoni, gli era sufficiente l'amicizia dei politici. Anzi, a Siena era sufficiente saperlo amici dei politici". Così si spiega perché, nella primavera del 1989, la merchant bank dei Paschi (la Centrofinanziaria) organizzò in gran fretta alla Parmalat un prestito di 120 miliardi a patto che Tanzi si liberasse della disastrosa proprietà di Odeon Tv e si impegnasse, in caso di mancato rimborso entro tre anni, a consegnare alle banche il 22 per cento dell'azienda. "Che - ricorda oggi Zini - eravamo già pronti a cedere alla Kraft". Ancora debiti. Ancora con il fiato sospeso. Tuttavia Tanzi ce la fa. Ancora una volta, non si sa come. "Fu salvata - ha scritto Marco Vitale (Corriere della Sera) - dalla brillante operazione condotta dalla Akros di Gianmario Roveraro, mobilitando capitali imprenditoriali non chiarissimi e facendo ricorso al mercato". C'è chi sostiene che, fallito il tentativo di Gennari appoggiato dal Monte dei Paschi, sia stata l'Opus Dei a tirare fuori dai guai don Calisto. E, in effetti, tutti gli uomini chiave dello sbarco di Parmalat in Piazza Affari sono dell'Opus. Lo è Gianmario Roveraro. Lo è Ettore Gotti Tedeschi che introduce Tanzi da Roveraro. E' stato scritto che per ottenere i favori dell'Opus, don Calisto furbissimo abbia organizzato addirittura "un circolo di preghiera". "Posso dire - taglia corto, gentile e infastidito, Roveraro - che Calisto Tanzi non ha mai partecipato a iniziative dell'Opus Dei né a quelle collettive di dottrina né a quelle individuali di ascesi. E comunque l'Opus non c'entra nulla in questa storia e non si occupa di queste cose. La finanza non è cattolica né laica o massonica: è semplicemente finanza". Prendiamone atto e annotiamo qualche prima conclusione. Per i pubblici ministeri, che si preparano a portare in giudizio Tanzi&soci, a soli tre mesi dal crac, Parmalat è "tecnicamente fallita" già alla fine degli Anni Ottanta. I capitali che vi affluiscono in quella stagione (consentono la quotazione alla Borsa di Milano) sono, nell'opinione della comunità finanziaria, "oscuri e non chiarissimi". A cavallo del 1990, la formidabile politica di acquisizioni all'estero aggrava ancora di più l'indebitamento di Calisto Tanzi. Fausto Tonna manipola i bilanci, nasconde le perdite, gonfia gli attivi. Come entra, dunque, Parmalat negli anni Novanta? Per saperlo conviene incontrare un "bucaniere" della finanza opaca. Florio Fiorini. (1. continua) (21 marzo 2004)

Parmalat: storia di un crollo annunciato

Intervista al Prof. Marco Vitale, economista d'impresa
[25 mar 2004]

Parmalat: storia di un crollo annunciato

L'intreccio politico e finanziario che ha portato al collasso Marco Vitale, economista d'impresa e docente universitario, è fondatore e presidente della Vitale-Novello, società di consulenza di alta direzione, e presidente di AIFI, l’Associazione italiana degli investitori istituzionali nel capitale di rischio. Ricopre incarichi nei consigli di amministrazione di importanti società, è editorialista e autore di numerosi scritti e membro del Movimento federalista europeo, del Comitato direttivo della Fondazione Olivetti e Vice Presidente del Centro internazionale Studi Sturzo. Prof. Vitale, può aiutarci a ricostruire la storia di Parmalat? Quella di Parmalat, soprattutto negli ultimi anni, non è fondamentalmente una storia criminale. E’ la storia di un’impresa nata nel 1962, fondata da un giovane che allora aveva 23-24 anni, con una intuizione imprenditoriale corretta, con una forte determinazione e che ha avuto una sua prima fase di sviluppo sano. Basti pensare che nel 1973 il fatturato era salito a 20 miliardi di lire, diventati 550 nel 1983. A questo punto si innesta da parte di Calisto Tanzi un’ambizione errata, che va al di là del successo aziendale: l’ambizione di contare, di essere importante, di influenzare lo sviluppo del settore in cui opera. È in questo periodo che Tanzi si lega con politici importanti che guardano a questo imprenditore emergente con interesse, come fanno sempre i politici con chi gestisce tanti soldi. Qual era il quadro politico dell’epoca? Siamo nella fase in cui la politica italiana è dominata dal socialista Bettino Craxi e da un mondo cattolico emergente che ha come punto di riferimento il giovane Ciriaco De Mita, controbilanciamento di Craxi, alla ricerca di appoggi industriali. Questo connubio, legittimo e comprensibilissimo, porta Tanzi a sviluppare una grande ambizione, e a cercare un’espansione sconsiderata, su basi finanziarie estremamente fragili. Il latte è un prodotto dal basso margine e col latte puoi fare certe cose e non altre. Tanzi, essendo consapevole di questo, in quel periodo si lancia in una grande politica di sponsorizzazioni, altra innovazione nel settore. Mai nessun produttore di commodity si era impegnato con queste grandi campagne che coinvolgono nomi dello sport come Ingemar Stenmark, Gustav Thoeni, Nelson Piquet, Niki Lauda. Nel contempo cerca quindi di costruire un marchio, e in gran parte ci riesce. Poi individua filoni di sviluppo nuovi, non solo quello del latte. In particolare lo yogurt, i succhi di frutta (compra la Santàl), le merendine (acquista Mr.Day). Queste acquisizioni vengono fatti tutti a debito, perché è un imprenditore che piace, che dà affidamento, ma soprattutto perchè è amico di De Mita, di Giulio Andreotti, dei grandi banchieri cattolici (da Ferdinando Ventriglia del Banco di Napoli a Gianni Zandano del S.Paolo, a Piero Barucci del Monte Paschi), che allora dominano il sistema bancario e sono molto legati al potere economico. Quale fu il punto di svolta? Una prima crisi si verificò già nel 1987-88. Allora la situazione della Parmalat era nota a tutti, anche ai grandi concorrenti. Infatti è in quegli anni che l'olandese Kraft offre di rilevare tutto per una cifra tra i 700 e gli 800 miliardi di lire. Da un punto di vista puramente economico e finanziario, quella era una soluzione fantastica per Tanzi: avrebbe risolto i suoi guai, l’impresa si sarebbe consolidata, ne sarebbe uscito con 700 miliardi di lire con cui potersi cimentare in altre attività. Però lui non volle perché, perdendo Parmalat, avrebbe perso il proprio obiettivo imprenditoriale, il potere, l’immagine di un imprenditore forte, emergente, importante. Quindi venne malconsigliato dagli amici politici che lo incitarono a mantenersi autonomo, assicurandogli appoggi finanziari (il loro interesse è chiaro: con Kraft non avrebbero potuto continuare ad andare a Roma in aereo). Tanzi quindi restò. E con lui lo squilibrio finanziario della sua azienda. A quel punto si verificò un’operazione molto ambigua che fa capo ad una piccola finanziaria toscana, di un tale Giuseppe Gennari, che godeva dell'appoggio del governatore del Monte Paschi, Carlo Zini, e di Lo Bianco, presidente della Federconsorzi, all’epoca un ente di grande peso. Seguendo un primo binario, Gennari si introdusse con molta forza in Parmalat, fino a contando talmente tanto che Tanzi sembrava messo da parte. La sua forza era l’importante dote finanziaria fornita dal Monte dei Paschi di Siena. Su un secondo fronte c’era un progetto denominato “Aquila”, studiato sempre da Federconsorzi e Montepaschi, per creare un polo di imprese agroalimentari e di banche particolarmente attente al mondo agricolo. La capofila era la Banca Nazionale dell’Agricoltura, posseduta al 13% da Federconsorzi, proprietaria di una serie di aziende importanti, per lo meno di nome, come la Polenghi Lombardo. Parmalat era un soggetto ideale per diventare perno di questo disegno. Come mai questa iniziativa non ebbe successo? Questo disegno venne spazzato via dall’implosione di Federconsorzi che, sulla base di un mismanagement lungo decenni, sempre nascosto attraverso il potere e la finanza bancaria, causò una crisi irreversibile che condusse allo scioglimento del gruppo. Nel contempo il potente governatore del Mps dovette fronteggiare problemi di natura giudiziaria, e fu costretto a lasciare la banca. I salvatori dovevano essere salvati: Tanzi era di nuovo nei guai, molto seriamente. In quel periodo io ero presidente di una merchant bank. Ci fu chiesto di intervenire. Io vidi il dossier su Parmalat. Ci rifiutammo di entrare per due motivi: secondo noi lo sviluppo finanziario era talmente grande da non poter più essere curato con metodi normali. Le persone con cui ci eravamo incontrati trasmettevano un senso di oscurità, di ambiguità, di non trasparenza. Avevamo la sensazione che le cifre fossero truccate. In me e nel consigliere delegato della merchant bank, Giorgio Cirla, sorse un grande sentimento di diffidenza. E credo che questo non fosse solo una questione personale. Infatti Tonna nelle sue deposizioni, che la manipolazione dei dati iniziò proprio in quegli anni, a cavallo tra il 1988 e il 1989. Già allora chi voleva, poteva capire. Si decise di portare Parmalat in Borsa, come soluzione di tutti i problemi, un’idea molto pericolosa: andare in Borsa quando un'azienda ha problemi. A quel punto entrò un banchiere d’affari, Gianmario Roveraro, all’epoca presidente della Banca Akros, da lui stesso fondata. Roveraro era ed è una persona di grande capacità, competenza e correttezza. Egli, mostrando quella pazienza che noi non avevamo avuto e senza farsi spaventare dagli atteggiamenti di oscurità, costruì pazientemente uno schema di salvataggio, accompagnò la società in Borsa, riuscì a convincere a tagliare dei rami secchi e a ricercare un equilibrio interno più serio. Restò per un paio d’anni anche nel consiglio d’amministrazione per vigilare che questa linea di nuova serietà venisse preservata. Cosa avvenne in seguito? La presenza di Roveraro si diluì e l’azienda venne risucchiata. Tanzi perseguì di nuovo una linea d’espansione dissennata, tornando a puntare tutto sul debito, sull'appoggio dei banchieri, sugli amici della politica. Nel frattempo, la Sme decise di privatizzare le sue aziende alimentari, che comprendevano Cirio, Bertolli ed altri marchi noti. Si scatenò una corsa alla loro acquisizione e apparve Sergio Cragnotti, appena uscito da un’avventura con Raul Gardini in Enimont. Con questi soldi fondò la Cragnotti & Partners, trovò l'appoggio di banche e gruppi finanziari importanti, ed acquisì queste aziende del settore alimentare. Il suo grande referente era Cesare Geronzi, consigliere delegato del Banco di Roma. E’ sotto la sua regia che Cragnotti acquistò Cirio, la Centrale del Latte di Roma, ottima azienda, e altre realtà imprenditoriali. Sempre sotto la sua regia si incontrarono per la prima volta Cragnotti e Tanzi, che sotto la guida di questo spericolato banchiere, cominciò ad accumulare sempre maggiori debiti. Da notare che Geronzi era creditore della Federconsorzi, partner della Cragnotti e Partners, creditore della Cirio: un intreccio di interessi che impedisce di agire con la necessaria oggettività, lucidità e imparzialità. E’ qui che ci sono gli sbagli e le omissioni della Banca d’Italia, non dopo. A cosa si riferisce? I veri errori della Banca d'Italia si verificano a questo punto della vicenda: aver permesso la crescita di questi nodi di conflitti d’interesse e di poteri strampalati, come per esempio essere banchiere ed essere anche partner della Cragnotti & Partners. Cragnotti acquistò la Cirio per 26 miliardi con una base d’asta di 106 miliardi e dopo alcuni anni Tanzi, per permettere a Cragnotti di rientrare verso un’esposizione che aveva soprattutto verso Banco di Roma, venne convinto e finanziato - oggi dice «forzato» - ad acquistare il polo del latte fresco che faceva capo alla Cirio, composto da Polenghi Lombardo, dalla centrale del latte di Roma e da qualche altra cosa. Un polo che Tanzi comprò ad un prezzo altissimo, sotto la regia di Geronzi, per oltre 700 miliardi. Sempre sotto la regia di Geronzi, Tanzi venne forzato - io dico guidato - ad acquistare le acque minerali di Giuseppe Ciarrapico, perchè anche lui doveva rientrare dai suoi debiti. Questa non è attività da banchieri: è la filosofia delle tre tavolette. Questo comportamento spinse Tanzi nel cosiddetto “schema Ponzi”: pagare i debiti contraendo altri debiti, ogni volta con interessi crescenti, restando intrappolati in una spirale perversa. Questo è lo schema mortale in cui Parmalat è rimasta intrappolata. Qual è il ruolo delle banche in tutto questo? Per istituti bancari di livello internazionale come Citicorp, Deutsche Bank, Jp Morgan, Parmalat era attraente perché pagava commissioni mostruose. Quando le banche non gli davano più credito si offrivano emissioni obbligazionarie nei posti più disparati del mondo. Questa è stata l’impiccagione finale di Tanzi. Queste banche hanno una responsabilità altissima: l’accusa è quella di non aver fatto seriamente il loro mestiere di banchieri. Basti un esempio: nel solo 1998, Parmalat ha acquisito la bellezza di 15 aziende all’estero. Acquisire un’azienda richiede lunghi tempi di adattamento delle organizzazioni, degli uomini, delle procedure. Figuriamoci quindici! La prova che le banche conoscevano l'entità del dissesto di Parmalat è che tutta l’industria dei fondi italiani, che è un’industria sana, aveva investito in azioni e obbligazioni Parmalat, la più grande azienda alimentare italiana, soltanto lo 0,11% del proprio patrimonio. Questo dato è già di per sé un giudizio negativo. Un ulteriore riprova è che Assogestioni è l’unico organismo che ha scritto una lettera a Tanzi, sottolineando la necessità di una maggior trasparenza nella contabilità e nelle procedure, data la quotazione in Borsa. Le banche hanno cercato di giustificarsi in qualche modo. La loro difesa è credibile? Arroccarsi dietro la posizione della Banca d'Italia, dell'Abi, e delle principali banche italiane è una colossale falsità che impedisce al sistema di migliorare. Oggi le banca operano in modo troppo meccanico: si bada alla cassa senza andar troppo per il sottile nell'analisi dei bilanci. L’unica parziale autocritica è stata mossa da Corrado Passera di Banca Intesa che ha ammesso che il sitema bancario poteva fare molto di più. E’ impossibile che un gruppo di queste dimensioni facesse un botto del genere senza che si sapesse. La verità è che tutti mangiavano su Tanzi: i banchieri, i politici, la città di Parma. Quella di Parmalat è la storia di un collasso annunciato. E’ dall’89 che il destino dell'azienda era segnato. Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio ha detto: «Noi non siamo responsabili delle scelte delle singole banche. La nostra responsabilità è controllare che il sistema sia solido». Ha ragione. Ma la Banca d’Italia è responsabile della solidità del sistema, un valore che su difende innanzitutto attraverso la tutela della fiducia del risparmiatore. Se un governatore non interviene in un’operazione come quella Parmalat non fa il suo dovere. In questo momento il totale dei rimborsi che le aziende fanno in Italia è maggiore del totale delle emissioni. Vuol dire che il sistema economico italiano è fermo e senza linfa. Il crack Parmalat può essere spiegato anche con la natura prettamente familiare del capitalismo italiano? Anche nel capitalismo familiare ci sono imprese serie e professionali. Enron per esempio non era di natura familiare eppure è stato un disastro. Con Parmalat siamo andati anche oltre: Wall street si è unita alla fantasia italiana. Quali sono stati gli altri protagonisti del caso Parmalat a cui si sente di imputare delle responsabilità? Le banche d’investimento hanno avuto condotte discutibilissime. Con un conflitto d’interessi enorme. Il problema del sistema di revisione è che le società non hanno la forza di imporsi a un potere, quello della società da cui dipendono. L’errore della Deloitte & Touche è stato quello di aver accettato l’incarico per la certificazione di un bilancio, in cui vi erano parti che erano fuori dalla sua conoscenza. Quali interventi propone per superare la crisi delle società di revisione? Innanzitutto, una società di revisione deve fare revisione e basta. Oggi fanno mille cose sotto mille casacche diverse. Un tempo c’era la consulenza contabile: era un’attività comprensibile. Oggi le società di revisione fanno marketing, consulenza per la costituzione di società, consulenza fiscale. Secondo, è necessaria una rotazione negli incarichi tra le società, una rotazione effettiva, che vada quindi dai 3 ai 9 anni e non dai 9 ai 15 come si propone. In terzo luogo, è necessario immaginare una nuova forma di governance: la maggioranza del consiglio deve essere composta da persone esterne al management, per esempio di nomina Consob. In più, le società di revisione hanno assunto un potere troppo grosso nel definire i principi contabili. Per questo penso che sia necessario un Accounting board che si faccia carico di definirli in maniera indipendente. E infine, è necessario stabilire un tetto al numero di aziende clienti di una stessa società di revisione, in modo da favorire la crescita di altri soggetti in un settore dove operano solo quattro grandi gruppi.