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sabato, ottobre 27, 2007
Titanic

14 APRILE - anniversario dell'affondamento del Titanic
Successe quella notte del 14 aprile del 1912.
Riporto un breve riassunto dell'evento.
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NASCITA DEL TITANIC - L'idea del Titanic nacque a Londra nel 1907, da un colloquio tra due personaggi in vista del mondo della navigazione civile, Lord Pirrie - presidente dell'impresa di costruzioni navali irlandese Harold & Wolf - e J. Bruce Ismay, dirigente della compagnia di navigazione White Star Line. Pirrie aveva proposto la creazione di almeno tre grosse e lussuose imbarcazioni per poter reggere la concorrenza della rivale Cunard Line.
La Cunard deteneva il quasi assoluto monopolio della rotta atlantica tra l'Europa e il Nord America, e la White Star - consociata della International Mercantile Marine di Pierpont Morgan - mirava alla creazione di una linea che puntasse sulla comodità e il lusso del viaggio, piuttosto che sulla sua velocità. Nacque così, dall'intreccio economico e tecnologico di Morgan, la White Star e la Harland & Wolff una linea che andò sotto il nome di "Olympic" (e la prima imbarcazione fu nominata proprio così).
Il 1907 fu definito l'annus mirabilis della storia delle costruzioni navali: la concorrenza tra Cunard e White Star portò alla creazione di due stupendi transatlantici - il Lusitania e il Mauritania, quest'ultima Nastro Azzurro fino al 1929. Nello stesso anno la marina militare intensificò la propria produzione. Caratteristica delle navi di lusso della White Star Line - e pretesto per differenziarle da quelle rivali della Cunard - era il riferimento a terminologie mitologiche la cui desinenza era sempre in "ic". Vezzo della Cunard Line era quello di nominare ricorrendo alla desinenza "ia", ad esempio "Carpathia". Il 16 dicembre 1908 cominciarono i lavori che avrebbero portato alla creazione della prima imbarcazione, l'"Olympic", cui avrebbe seguito il leggendario "Titanic" (lo scalo di costruzione fu preparato nel marzo 1909). Entrambe le navi vennero costruite a Belfast. L'Olympic venne varato nel fiume Lagan il giorno 20 ottobre 1910. Si trattava di un enorme scafo il cui peso era di ben 25.000 tonnellate, si riuscì ad immergere in acqua ricorrendo a 23 tonnellate di grasso, raggiunse una velocità di 12, 5 nodi, e per essere fermata necessitava di sei ancore e otto tonnellate di cavi. La storia della navigazione non aveva mai assistito alla creazione di un tale gigante. Il Titanic, nave gemella, venne costruita più brevemente, ricorrendo agli studi e all'esperienza consumata nella realizzazione dell'Olympic.
GLI UOMINI CHIAVE - L'incidente con l'Hawke del 20 settembre 1911 avvenne proprio alla vigilia del primo viaggio inaugurale del Titanic, direzione New York (data prevista, il 20 marzo del 1912). L'incidente e la conseguente riparazione dell'Olympic causò un caos imprevisto nel porto di Belfast. La White Star comunicò che il ritardo del Titanic sarebbe stato di sole tre settimane (10 aprile). Un rischio, sicuramente. O una cosa impossibile da realizzare, come insinuarono molti.
La White Star era nata nel 1845 a Liverpool, in quel tempo il porto più importante del Regno Unito. Fondata da Henry Threlfall Wilson e dal socio John Pilkington, nemmeno sette anni dopo era una delle principali compagnie coinvolte nel commercio con il continente australiano. Figlio di Thomas Henry Ismay - presidente della Ismay, Imrie & company e uomo ricchissimo - J. Bruce venne allevato con affetto dal padre, che puntò molto sulla sua educazione. Dopo un'infanzia nei migliori collegi d'Inghilterra, il giovane preferì evitare l'università. Dopo un anno vissuto in Francia studiando presso un insegnante privato, il ventenne J. Bruce cominciò il praticantato presso l'ufficio del padre. A 24 anni J.B. Ismay cominciò a lavorare per la White Star, a New York. Nel 1891 divenne socio della Ismay, Imrie & co. e vi lavorò fino alla morte del padre. Divenne dirigente della ditta e anche della White Star, dopo poco vendette la ditta e nel 1911 si accordò con degli americani per fondare la IMM (International, Mercantile Marine). Uno dei soci, il principale, era J.P. Morgan, colui che fu il vero finanziatore e proprietario del Titanic. J.P. Morgan era uno degli uomini più ricchi del mondo. talmente ricco, da salvare gli stati Uniti dall'inadempimento per la convertibilità del dollaro in oro nel 1895. Figlio di Julius Spencer, commerciante, e di Juliet Pierpont, nacque a Hartford, Connecticut il 17 aprile 1837.
FORTUNATA... DISDETTA - Morgan visse per parecchio tempo in Europa, dove seguì il padre per lavoro. Studiò in Inghilterra e Svizzera, frequentò l'università in Germania, a Gottingen nel 1856. Nel 1859 era di nuovo in America, a New Orleans, commerciante di cotone. Qualche anno dopo si buttava nell'industria ferroviaria, dominando tutto il mercato con la United States Steel. Tipico esempio del capitalismo pionieristico, morì nel 1913. Banchiere, filantropo e collezionista di opere d'arte, lasciò tutto il suo patrimonio artistico al Metropolitan Museum di New York.
Alla vigilia del fatale viaggio del Titanic, J.P. Morgan fece cancellare all'ultimo momento la propria partecipazione. William James Pirrie, presidente del consiglio di amministrazione della Harland & Wolff e dirigente della White Star, fu uno dei collaboratori più stretti di Morgan. Fu lui a convincere il miliardario a costruire le "olympic" unendo i facoltosi finanziamenti statunitensi con la conoscenza tecnologica navale britannica. Nato in Quebec nel 1847, figlio di James Alexander Pirrie e Margaret Montogomery, W.J. Pirrie studiò a Belfast, e lì cominciò a lavorare come apprendista alla compagnia di costruzioni navali Harland & Wolff nel 1862. In soli 12 anni ne divenne una delle figure eminenti. Pirrie morì in mare nel 1924. E' impossibile documentare tutte le leggende, le voci e le ipotesi che gravitano intorno alla tragedia dell'affondamento del Titanic. Dopo il fatale 15 aprile 1912 fu un fiorire di aneddoti che miravano a sostenere la teoria che il Titanic fosse in qualche modo predestinato.
SEGNALI DI MALAUGURIO - Bastino - in questa occasione - quattro significativi esempi sulla leggenda della maledizione del Titanic:
1) Il numero dello scafo del Titanic era 390904. Scrivendo a mano un quattro aperto e i nove senza la curva della stanghetta e mettendo il foglio di fronte ad uno specchio il numero si trasformerebbe nella frase "No Pope", e cioè "niente Papa". Un segno di malaugurio, sicuramente, per gli operai del cantiere di Belfast, in grande maggioranza cattolici, che non mancarono di lamentarsene con i dirigenti, e che continuarono i lavori solo dopo aver ricevuto assicurazione che si trattava di una coincidenza;
2) Una poetessa americana, il cui nome era celia Thaxter, nel 1874 scrisse un inno funebre su una nave che collideva con un iceberg;
3) Il giornalista e spiritualista britannico W.T. Stead ( e che morì a bordo del Titanic) scrisse ben due racconti a proposito di disastri sul mare - aggravati dall'assenza di scialuppe (uno dei motivi della tragedia del Titanic!) - uno dei quali accennava anche alla presenza di un iceberg; 4) Il racconto intitolato "Futility" a firma del mistico Morgan Robertson e pubblicato nel 1898 nel quale l'autore avanzava il problema della minaccia degli iceberg per le imbarcazioni che transitavano nel Nord Atlantico.
COMANDANTE SPERICOLATO - Edward John Smith era noto alla marina mercantile con il nome di "E.J.". Nacque nel 1850 a Hankley, Staffordshire, nel centro dell'Inghilterra. A 13 anni lasciò la scuola per divenire apprendista a Liverpool per la Gibson & Company, compagnia di navigazione. Entrò nella White Star nel 1880 come ufficiale inferiore. Sette anni dopo, incredibilmente, era già comandante. Dopo solo due anni di massima carica nel suo curriculum appariva il primo incidente: a guida del "Republic" si incagliò al largo di Sandy Hook, vicino a New York, il 27 gennaio 1889. In quell'occasione la nave restò immobile per cinque ore, con i passeggeri a bordo, e una volta libera subì un'esplosione alle caldaie che uccise tre uomini dell'equipaggio. Ancora due anni dopo, Smith fece incagliare il "Coptic" al largo di Rio de Janeiro, nel dicembre 1890. Dopo aver partecipato alla guerra contro i Boeri in Sudafrica ottenne decorazioni e il rango di comandante della Royal Naval Reserve (era questo il motivo per cui le sue navi sventolavano la bandiera blu della RNR e non quella rossa della Marina Mercantile Britannica). Nel 1901 era il comandante del "Majestic". A bordo di esso ci fu un incendio il 7 agosto del 1901, al largo del porto di New York. Dal 1904 Smith divenne comandante delle ammiraglie della White Star fino al termine della sua carriera. Fino al 1907 guidò il "Baltic", sul quale scoppiò un incendio nel bacino di Liverpool.
BIGLIETTI COSTOSISSIMI - A bordo dell' "Adriatic" fu protagonista di un ennesimo incagliamento di cinque ore nel novembre del 1909. A bordo dell'Olympic Smith fu il responsabile dello scontro, cui abbiamo già accennato, tra l'"Olympic" e l'incrociatore "Hawke" nel 1911. Nonostante questi avvenimenti, Edward John Smith veniva considerato - a detta di tutti gli esperti di navigazione e dei vari comandanti - un personaggio "di alto rango", nonché "dagli ottimi precedenti". Il varo del Titanic avvenne il 31 maggio 1911, nello stesso giorno in cui l'Olympic partiva per il suo primo viaggio. Lo stesso giorno Giorgio V veniva incoronato re.
Costato 7 milioni e mezzo di dollari del 1912, il gigantesco secondo parto della serie "olympic" raggiungeva la velocità - impressionante per quella stazza - di circa 23 nodi. Lungo quasi 270 metri, aveva un timone che da solo pesava "più della Santa Maria", una delle tre mitiche caravelle di Cristoforo Colombo dirette verso il Nuovo Mondo. Il costo del biglietto - diviso in tre classi - andava dai 3100 dollari ai 32 dollari, e cioè dai 217 milioni di lire attuali ai due milioni e mezzo. La partenza vera e propria, in occasione del viaggio inaugurale, avvenne a mezzogiorno del 10 aprile 1912, dal porto di Southampton. La grande nave uscì dal molo grazie all'intervento di sei rimorchiatori, ma già durante questa manovra rischiò di collidere con la nave di linea "New York".
Dopo l'ultimo addio all'Europa, lasciando il porto di Queenstown alle 13.30 dell'11 aprile, una cornamusa irlandese intonava "Il Lamento di Erin": la suonava un passeggero di terza classe, tale Eugene Daly. Da quel momento la nave si sarebbe diretto verso il mare aperto, che sarebbe stato da lì a qualche giorno la sua tomba. Il Titanic avrebbe seguito una rotta lungo il nord dell'Oceano Atlantico, sfiorando le acque gelide a sud della Groenlandia. Questa zona diveniva pericolosa soprattutto in una condizione: quando la temperatura si alzava più del normale. In quel caso, enormi banchi di ghiaccio si staccavano dal continente e prendevano la via del sud.
TELEGRAMMA MISTERIOSO - Queste imponenti montagne di ghiaccio vagano per l'oceano trascinandosi dietro un odore sgradevolissimo di putrefazione; mentre si sciolgono, infatti, vengono in superficie resti di carcasse e di fossili rimasti incagliati per chissà quanti anni. E' relativamente facile avvistare quindi un iceberg, per due motivi principali: il primo è quello dell'odore, il secondo è riferito alla sua capacità di riflettere la luce. Il vento, che quasi sempre spira in mare aperto, riflette facilmente la luce delle stelle e della luna.
Il giorno della tragedia, un'incredibile concatenazione di eventi impedì di avvistare in tempo l'iceberg assassino. Il 14 aprile, infatti, era una notte incredibilmente limpida, ma senza il minimo alito di vento. In più la mancanza totale della luna rivelava un magnifico cielo stellato, ma che sarebbe stato fatale. Per finire, l'aprile del 1912 fu caratterizzato da una primavera alquanto precoce. Da anni non si registrava in quella zona delle temperature così alte, cosa che portò ad una proliferazione considerevole di iceberg.
Alle 13.42 del 14 aprile, il comandante Smith ricevette un messaggio telegrafico importantissimo: il Baltic avvisava della presenza di enormi banchi di ghiaccio sulla rotta. Questo messaggio è uno dei grandi misteri del Titanic: Smith lo mostrò a Ismay, che lo tenne in tasca per ben cinque ore, senza che nessuno dei due si sentisse in obbligo di avvertire il resto dell'equipaggio. Dopo quel messaggio, il Titanic ricevette almeno altri cinque avvertimenti nel corso della fatidica giornata del 14 aprile. Un altro elemento inquietante sarebbe quello che uno dei due avvistatori, tale Fleet, aveva comunicato per ben tre volte nell'arco di mezz'ora la presenza dell'iceberg, ma senza ottenere ascolto dagli ufficiali di turno Murdoch e Moody. La testimonianza di Fleet pare non sia mai emersa durante i processi che seguirono al disastro. Fleet, uno dei pochi sopravvissuti, avrebbe - si dice - ottenuto un congruo contributo dalla White Star affinché tacesse. L'uomo condusse una vita infelice fino al 1965 quando - all'età di 77 anni - si suicidò in occasione del trentennale del proprio addio al mare (aveva lavorato, in seguito al disastro, sull'Olympic).
Il primo avvertimento giunse al Titanic dalla nave Caronia, di proprietà della Cunard.
QUEL TRAGICO GIORNO - "Al capitano, Titanic - recita il verbale della trasmissione - navi dirette a ovest riferiscono presenza ghiacci; piccoli iceberg e banchi di ghiaccio a 42° nord da 49° a 51° ovest, 12 aprile. saluti - Barr". Il messaggio, risalente a due giorni prima, fu recapitato dal Titanic solo due giorni dopo, in piena zona di mare pericolosa. Il secondo avvertimento, il più importante, arrivò - come detto - ad opera del Baltic, alle 13.42 dello stesso giorno 14: "Al capitano Smith, Titanic - questo il testo - Avuti venti moderati, variabili, tempo bello e scoperto dalla partenza. Motonave greca Athinai riferisce passaggio iceberg e grandi quantità banchi di ghiaccio oggi a 41° 51' lat. N e 49° 52' long. O. Auguri a lei e al Titanic - il comandante".
Questo messaggio rimase incredibilmente in mano di Ismay fino alle 19.15, poche ore prima del disastro. Alle 19.30 un altro messaggio arrivò al Titanic: la Californian comunicava all'Antillian la presenza di tre grossi iceberg a cinque miglia a sud della nave (posizionata a 42° 3' lat N, e 49° 9' long. O). Alle 21.40, ora in cui il comandante Smith si ritirò nel suo alloggio, la Mesaba comunicava al Titanic un avvertimento specifico: "Da Mesaba a Titanic e a tutte le navi dirette a est. Presenza di ghiacci alla latitudine di 42° N a 41° 25' N, long. 49° a 50° 30' O. Avvistati grossi pack di ghiaccio e vari iceberg. Anche banchi di ghiaccio. tempo buono, scoperto". L'area era precisamente quella dove il Titanic navigava. Non si sa se questo importantissimo messaggio arrivò al comandante Smith, quello che è certo è che la nave non diminuì di un nodo la propria velocità sostenuta.
Il sesto avvertimento avvenne alle 22.30 dalla Rappahannock, una nave da carico britannica che passava poche miglia più a nord e si dirigeva ad est, danneggiata dal ghiaccio nel timone avvertiva il Titanic del pericolo. Il Titanic rispondeva così: "Messaggio ricevuto. Grazie. Buona notte." Venticinque minuti più tardi il Californian comunicava direttamente al Titanic: "Bloccati e circondati dal ghiaccio...", ma venne interrotto prima di poter chiarire la propria posizione.
ORE 23.40: LA COLLISIONE - Secondo le due vedette - il già citato Frederick Fleet e Reg Lee - verso le 23.30, e cioè solo dieci minuti prima dell'impatto con l'iceberg, una leggera nebbia si alzò davanti alla nave. Da quella foschia sarebbe apparsa improvvisamente la morte, nella forma di "una massa nera, leggermente più alta della sommità del castello di prua." All'avvertimento di Fleet, il timoniere Robert Hitchens, 30 anni, al timone dalle ore 22.00 girò la ruota al massimo, tentando una virata a sud di 40°. Il tentativo era quello di passare improvvisamente a sinistra dell'iceberg, sfiorandolo con il fianco destro della nave.
Per ordine del comandante i motori che viaggiavano a pieno ritmo furono prima interrotti, per poi fare - con eguale potenza, tutta "macchina indietro". Il risultato fu una sorta di frenata in curva. Dall'avvertimento all'impatto ci furono solo 450 metri, una misura irrisoria soprattutto in campo marittimo. Durante le prove il Titanic dimostrò di saper arrestarsi in 780 metri, quando procedeva alla velocità di 20 nodi. Quello che avvertirono i passeggeri al momento dell'impatto dipese dal luogo dove si trovarono. Molti dissero che sembrava "una catena fatta scorrere sul verricello". altri ebbero l'impressione che si fosse realizzato uno "scontro con un'altra nave", altri ancora parlarono di uno "stridente suono metallico", altri di "un rumore sordo" o "un boato simile a un tuono".
Molti pensarono che si fosse staccata una parte di elica, eventualità che accadeva abbastanza spesso durante i viaggi del tempo. Quel che appariva certo era che il Titanic (alle fatidiche coordinate 41° 46' lat. N e 50° 14' long. O) si era schiantato irrimediabilmente contro una montagna di ghiaccio. Per cinque minuti dopo l'impatto la nave arretrò. Venti minuti dopo, il comandante E.J. Smith aveva la piena convinzione che il Titanic era perduto. Cinque compartimenti stagni della nave si erano allagati in pochissimo tempo. Se se ne fossero allagati quattro la nave avrebbe potuto tentare di proseguire verso la salvezza. Alle ore 00.05 di lunedì 15 aprile il pavimento del campo di squash sul ponte F era allagato fino a 10 metri al di sopra della chiglia.
MORTE CON RAG TIME - L'acqua gelida del Nord Atlantico che entrava nella sala caldaie (dove logicamente la temperatura era altissima) provocava esplosioni a catena. L'appello del Titanic venne captato da sedici navi, ma la più vicina - la Carpathia - era a non meno di quattro ore di distanza, anche ricorrendo alla massima velocità. Il Titanic sarebbe affondato in meno di due ore. Sul Titanic, per quanto possa sembrare incredibile, non esistevano altoparlanti; la notizia del disastro fu comunicata ai passeggeri quindi dai camerieri e dall'equipaggio. Per calmare la gente, l'orchestra del Titanic - composta di otto membri e diretta da Wallace Hartley, di Colne, Lancashire - cominciò a suonare un ragtime nel salone della prima classe, poco dopo la mezzanotte. Tutti gli orchestrali non avrebbe smesso di suonare fino al completo affondamento della nave, pienamente consci di essere sul punto di morte. Alle 00.25 il comandante Smith diede l'ordine di preparare le scialuppe e di far salire per primi le donne e i bambini. Alle scialuppe è legato uno dei fatti più incredibili e tragici della leggenda del Titanic: al tempo non era obbligatorio che le navi avesse un numero di scialuppe tale da poter accogliere tutti i passeggeri.
Solo metà dei passeggeri, in caso di pericolo, avrebbe potuto salvarsi, una considerazione, questa, che non preoccupò gli uomini della White Star Line, convinti dell'inaffondabilità del Titanic. Questo aspetto, legato al fatto che - in conseguenza del panico - molte scialuppe vennero calate con pochissime persone a bordo, causò un numero di vittime maggiore di quello preventivato. Dal disastro del Titanic si sarebbero salvate solo 700 persone su 1500. Di coloro che finirono nel gelido mare (la temperatura intorno alla nave era di -2° C, letale per qualsiasi essere umano che vi rimanesse anche per pochi minuti), solo sei persone vennero ripescate. Delle scialuppe che si allontanarono velocemente dalla nave che affondava, per paura di essere risucchiate, solo una tornò sul luogo per accertarsi che ci fossero sopravvissuti.
DINAMICA DELL'AFFONDAMENTO - Su una di quelle scialuppe, nascosto come un ladro, c'era nientemeno che J. Bruce Ismay, che era riuscito a farsi strada a spintoni tra i pochi uomini che poterono salvarsi per ultimi. L'orgoglioso realizzatore del Titanic, colui che spingeva Smith affinché la nave andasse a pieno ritmo per dimostrare la propria potenza, giaceva infreddolito in mezzo al mare osservando all'orizzonte il suo gioiello affondare nel silenzio. La dinamica dell'affondamento del Titanic fu impressionante. Avendo scontrato l'iceberg nella parte anteriore destra e poi lungo buona parte del fianco, il Titanic cominciò ad imbarcare acqua a prua. La nave si inclinò quindi in avanti, sollevando in modo impressionante la poppa. Le cronache narrano di una scena apocalittica: centinaia di persone cercavano di evitare la fine "scalando" la coperta della nave diretti verso la poppa che si alzava sempre più. Arrivata ad una certa inclinazione il Titanic - come se fosse un grissino - si spezzò nell'esatta metà, e la parte posteriore ricadde orizzontalmente sullo specchio d'acqua. In pochi secondi la parte di poppa tornò ad alzarsi verticalmente, per poi affondare come se fosse un palo a velocità impressionante. Alle ore 2.30 del 15 aprile 1912 il Titanic, martoriato, giaceva in silenzio sul fondo dell'Oceano Atlantico.
Dei 711 superstiti, 203 erano di prima classe, 118 di seconda e 178 di terza; a ciò si aggiungano 212 membri dell'equipaggio. Sopravvissero il 33% degli uomini e il 97% delle donne di prima classe, l'8% degli uomini e l'86% delle donne di seconda classe, il 16% degli uomini e il 46% delle donne di terza classe. Il Carpathia arrivò sul luogo del disastro quattro ore dopo l'impatto tra l'iceberg e il Titanic. Comandante della nave della rivale della White Star Line, la Cunard, era Arthur Henry Rostron, che sarebbe passato alla storia come uno degli incontrastati eroi della vicenda. Il suo atteggiamento fu indubbiamente deciso e la sua capacità di comando fu improntata alla massima efficienza. Il Carpathia comparve all'alba del 15 aprile 1912, fortunatamente semivuota poiché stava compiendo il viaggio di ritorno dal Nuovo Mondo. Diretta verso lo stretto di Gibilterra fece marcia indietro e si diresse a tutta velocità verso il luogo del naufragio.
SPAVENTOSA ALBA - Erano le 00.25. L'ultimo messaggio inviato dal Titanic al Carpathia avvenne alle ore 1.55 del mattino e fu "Sala macchine piena fino alle caldaie". Rostron ordinò di limitare le luci e riscaldamento all'interno della nave, poiché tutta l'energia sarebbe servita ad aumentare la velocità. nel frattempo fece sgomberare il ponte della nave, liberando anche il minimo spazio ingombrato da oggetti superflui. Venne preparata una sala per i medici a bordo, nonché coperte e cibo caldo. La scena che si presentò al Carpathia quella maledetta alba del 15 aprile fu indimenticabile: le minuscole scialuppe sopravvissute galleggiavano silenziose in un'area estesissima, dove dominavano almeno due dozzine di enormi iceberg alti più di 60 metri. Come scrisse Rostron, "non galleggiava in superficie nemmeno un frammento del relitto, forse un paio di sedie a sdraio, qualche cintura di salvataggio, molto sughero ma niente di più di quei resti che spesso vengono trascinati sulla spiaggia dalla marea. La nave era affondata trascinando tutto con sé. Ho visto un solo cadavere in acqua, nessuno era riuscito a sopravvivere in quel mare gelido."
L'ultimo resto del Titanic, il canotto A, venne avvistato e raccolto da una nave della White Star il 13 maggio: vi erano a bordo tre cadaveri che vennero sepolti in mare dopo un'orazione funebre.
venerdì, agosto 31, 2007
venerdì, agosto 10, 2007
Borse: Europa in caduta, New York recupera
Nuovi interventi della Bce e della Fed per «stabilizzare il mercato»
Perdite pesanti, bruciati 268 milioni di euro. Primo miglioramento a Wall Street.
Perdite pesanti, bruciati 268 milioni di euro. Primo miglioramento a Wall Street.
Trichet: «L'economia europea è robusta»
MILANO - L'ondata di ribassi non si ferma, almeno in Europa. Dopo il giovedì nero delle borse europee (bruciati 160 miliardi) e di Wall Street (in fumo 150 miliardi), la crisi dei mutui americani continua a spingere in territorio negativo le piazze di tutto il mondo. Fino a quando, in serata, Wall Street ha invertito la tendenza cominciando a recuprerare. ma in Europa la paura aveva causato un «venerdì nero» quasi inevitabile visto l'andamento di giovedì. Le principali borse europee hanno registrato pesanti perdite e complessivamente si calcola che la giornata abbia fatto bruciare in Europa 268 miliardi di euro di capitalizzazioni. L'indice paneuropeo Dj Stoxx 600 ha infatti perso il 3,07%, riducendo il suo valore complessivo di 268,6 miliardi di euro. In due giorni sui listini del Vecchio Continente si sono così volatilizzati quasi 430 miliardi di euro. Tutte le Borse europee hanno chiuso con ribassi ancora pesanti con la sola relativa eccezione di Francoforte che ha avuo un ribasso più contenuto (-1,31%),. Le perdite sulle altre piazze sono comprese tra il 2,47% di Madrid e il 3,7% di Londra.
Di seguito gli indici dei titoli guida delle principali borse europee. Parigi -2,83%, Madrid -2,47%, Amsterdam -2,95%, Stoccolma -3,17% - Zurigo -2,72%.
RECUPERI NEGLI USA - Nel tardo pomeriggio si cominciano ad avvertire gli effetti delle manovre della Fed per tamponare la situazione. I listini di borsa americani riducono le perdite dopo l'immissione sul mercato di altri 35 miliardi di dollari da parte della Federal Reserve. Il Dow Jones recupera parzialmente le forti perdite della giornata di giovedì e chiude con un -0,26% che segna almeno una netta inversione di tendenza dopo aver registrato in giornata anche segni positivi. Il Nasdaq chiude con un -0,45% ed è addirittura in lieve rialzo invece lo S&P 500, che ha guadagnato 0,56 punti (+0,04%).
MILANO CHIUDE A -2,48 - Piazza Affari archivia la seconda seduta consecutiva in pesante ribasso con il Mibtel che ha perso il 2,48% a 30.418 punti, lo S&P/Mib che è scivolato del 2,65% a 38.994 punti e l'All Stars che è arretrato dell'1,90% a 40.237 punti. Nel nostro Paese l'allarme direttamente legato ai mutui «subprime» è limitato. Ma l'effetto psicologico negativo resta pesante, nonostante anche Bankitalia sia intervenuta per spiegare che un allarme concreto per il sistema finanziario italiano non esiste. ASIA - I timori per i mutui subprime Usa hanno contagiato anche le Borse di Asia e Pacifico, che hanno reagito con un giorno di ritardo, per ragioni di fuso orario, agli sviluppi della vicenda. Sotto pressione i listini di Tokyo (-2,37%), Hong Kong (-3,15%) e Seul (-4,2%) che è apparsa come la piazza più scottata dal problema insieme a Sidney (-3,72%).
TRICHET: «L'ECONOMIA E' ROBUSTA» - «Come ho già detto il 2 agosto, continuiamo a guardare con grande attenzione agli sviluppi dei mercati. È quello che abbiamo fatto e che facciamo dando ai mercati la liquidità appropriata» spiega il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet al quotidiano francese Ouest-France. Trichet cerca di buttare acaqua sul fuoco, in particolare ai riflessi psicologici negativi della crisi arrivata dagli Usa. E conferma che l'Europa è solida: «La crescita robusta che avevamo diagnosticato un certo numero di mesi fa è confermata. Il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente rivisto al rialzo la crescita attesa quest'anno per la zona euro». Un dato non soltanto finanziario ma, sottolinea Trichet, basato su un'economia reale. E ricorda che in Eurolandia sono stati creati più di 12 milioni di occupati negli 8 anni che hanno seguita la nascita dell'euro. «Negli otto anni che hanno preceduto la moneta unica, ne erano stati creati meno di 3 milioni».
10 agosto 2007
Bnp Paribas sospende tre fondi Abs

PARIGI (Reuters) - Bnp Paribas Investment Partner, la società che riunisce l'insieme delle attività di gestione di Bnp Paribas, ha annunciato la sospensione del calcolo del valore e i riscatti di tre suoi fondi che investono in Asset backed securities, a causa dei problemi nel mercato americano dei mutui "subprime".
In un comunicato della società si precisa anche che i tre fondi in questione sono il Parvest Dynamics Abs, il BNP Paribas Abs Euribor e il Bnp Paribas Abs Eonia.
"Per proteggere gli interessi degli investitori e assicurare loro un uguale trattamento in questi momenti eccezionali, Bnp Paribas Investment Partners ha deciso di sospendere temporaneamente il calcolo del valore come anche le nuove sottoscrizioni e i riscatti per questi fondi", è stato sottolineato nel comunicato.
Secondo quanto reso noto il valore dei tre fondi è crollato al 7 agosto a 1,593 miliardi di euro contro i 2,075 miliardi di euro al 27 luglio.
Alle 11,250 circa il titolo Bnp perde oltre il 3,21% a 82,71 euro.
martedì, agosto 07, 2007
Bazoli: "La mia vera storia all'Ambrosiano tra Calvi e la P2"

L'attuale presidente di Intesa-San Paolo, nell'agosto di 25 anni fa prese in mano il Nuovo Banco che nasceva dal Vecchio travolto dagli scandali
"Quando mi proposero l'incarico esitai. Il quadro del Paese era drammatico con la mafia che dilagava e la loggia segreta appena scoperta"
di MASSIMO GIANNINI
MILANO - "Fu un trauma. Ma anche grazie a quel trauma, è cambiata la storia del nostro sistema bancario". Tutto iniziò con quella firma. Domenica 8 agosto 1982: Giovanni Bazoli, per gli amici Nanni, allora "avvocato di provincia", decide di trasformarsi in "banchiere per caso". Mette la sua firma sull'atto di cessione dei liquidatori del vecchio Banco Ambrosiano al Nuovo Banco Ambrosiano e comincia un'altra storia. Il Presidente di Intesa-San Paolo quella storia non l'ha mai raccontata in un'intervista. Accetta di farlo per la prima volta, negli uffici dell'antica sede della Cariplo, ripercorrendo i fatti dell'Ambrosiano insieme ai misfatti dell'Italia di allora, fino a sfiorare l'Italia di oggi. La politica, il capitalismo, le banche. Bazoli oggi non vuole parlare dell'antagonismo che si è creato con l'altro grande polo nato dalla trasformazione di questi decenni, e cioè Unicredit-Capitalia, che gli ha tolto la palma di primo gruppo bancario italiano.
"Ho ottimi rapporti personali con tutti, con Geronzi e con Profumo. Non voglio fare polemiche con nessuno", dice. Ma non si nega il piacere di qualche battuta: "Nella nobile gara ingaggiata sportivamente con Profumo, possiamo dire che ora siamo sul 2 a 2. Lui si è complimentato con me quando comprammo la Comit nel '99, e io mi complimentai con lui quando concluse l'operazione con i tedeschi. L'anno scorso lui si congratulò con me per la fusione con il San Paolo, e adesso io mi congratulo con lui per la fusione con Capitalia...". Resta da capire chi segnerà adesso il 3 a 2. "Non so chi farà il prossimo gol - osserva Bazoli - ma so che se tra noi c'è una sana competizione questo è un bene per il paese, mentre diventa un male se tra i due gruppi si innesca un processo di contrapposizione, o peggio di scontro". Lui farà di tutto per evitarlo. Ma non ha cambiato idea sul conflitto di interessi che si è creato in capo a Unicredit-Capitalia negli assetti di Mediobanca e, a cascata, di Generali: "A me pare che un problema ci sia. Mi sembrava doveroso dirlo, e l'ho detto. Ora non voglio aggiungere altro".
Professor Bazoli, quale lucida follia, in quel lontanissimo agosto dell'82, la spinse ad accollarsi il disastro del vecchio Ambrosiano di Calvi?
"La verità è che, quando fui proposto per quell'incarico, esitai ad accettarlo. Furono le circostanze e le insistenze di alcuni autorevoli amici, che mi indussero, quasi mi obbligarono, ad addossarmi una responsabilità per la quale non mi sentivo affatto preparato. D'altronde, non solo io, ma tutti i protagonisti dell'operazione erano perfettamente consapevoli della difficoltà e dei rischi altissimi che l'impresa comportava. Farsi carico dell'eredità del Banco Ambrosiano voleva dire affrontare alcuni dei più gravi problemi dell'Italia di allora".
In che senso?
"Dovremmo calarci nel contesto storico in cui maturò la crisi del Banco Ambrosiano per comprendere la situazione drammatica in cui si trovava allora il nostro Paese. La vita nazionale era segnata da vicende inquietanti e torbide che sembravano minacciare le stesse istituzioni democratiche. E queste vicende erano strettamente intrecciate al dramma che si stava consumando all'Ambrosiano. Era scoppiato da poco lo scandalo della P2. La mafia dilagava. Le commistioni tra politica ed economia sembravano inestricabili. A giugno Calvi era stato trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Il tracollo del Banco Ambrosiano fu uno shock per tutta l'Italia, ma colpì soprattutto Milano. L'Ambrosiano era per antonomasia la banca della borghesia milanese, ma per di più il suo dissesto metteva a repentaglio anche la sopravvivenza della Rizzoli".
Chi la designò alla guida del Nuovo Banco?
"Alla vigilia di quell'incredibile weekend tra il 7 e l'8 agosto dell'82 si riunirono a Roma le banche che avevano dichiarato al ministro del Tesoro, Nino Andreatta, e al governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, la loro disponibilità a subentrare nel Banco Ambrosiano. Il mio nome per la presidenza fu proposto da quelle banche, come poco dopo fu scelto dalle stesse come direttore generale Pierdomenico Gallo".
Lei se lo aspettava?
"Assolutamente no. Allora esercitavo la professione di avvocato nello studio di famiglia a Brescia e insegnavo all'Università Cattolica di Milano. Non avevo ancora cinquant'anni. Posso dire che non ero per nulla preparato né attratto dalla prospettiva di cambiare radicalmente condizioni di vita e di lavoro. Per questo all'inizio cercai di resistere alle pressioni. Tra l'altro pensavo (sbagliando) che la mia formazione di giurista non mi sarebbe servita per guidare una banca, per di più fallita. Ma quando addussi questo argomento per giustificare la mia riluttanza ad accettare, Ciampi replicò: "Io sono diventato Governatore della Banca d'Italia e sono laureato in lettere!"".
Come avvenne il passaggio dal vecchio al nuovo Banco?
"Una volta accertato che non esistevano le condizioni per la sua sopravvivenza, il dissesto dell'Ambrosiano doveva essere dichiarato e sanzionato. Il ministro decretò quindi, su proposta del Governatore, la liquidazione coatta della società. Una decisione inevitabile ma dirompente, che Andreatta adottò contro il parere dei maggiorenti del suo partito, che, da Andreotti a Piccoli, si adoperarono sino all'ultimo per cercare soluzioni che evitassero il fallimento. Una seconda decisione, anch'essa di importanza cruciale, riguardò il perimetro delle attività da cedere al Nuovo Banco che nasceva dalle ceneri della liquidazione. Fu deciso che fossero cedute tutte le attività italiane, compresa quindi la Centrale, la quale controllava la Banca Cattolica del Veneto, il Credito Varesino, la Toro Assicurazioni, nonché il 40% della Rizzoli. Anche questa decisione incontrò forti opposizioni in sede politica. Il ministro delle Finanze dell'epoca scrisse una lettera al presidente del Consiglio, che era allora Spadolini, sostenendo la tesi che la Centrale non dovesse essere ceduta al Nuovo Banco, per rimanere di competenza dei liquidatori. Il governatore Ciampi resistette alle pressioni, ben consapevole di assumersi un grande rischio personale se gli eventi successivi non avessero dato ragione alla sua scelta. Lui stesso mi ha confidato una volta che quella fu una delle decisioni più importanti e difficili del suo governatorato".
Perché quella scelta fu così importante?
"Perché il gruppo bancario costruito da Calvi, pur nelle condizioni di collasso in cui era venuto a trovarsi, rappresentava l'unico grande polo creditizio privato che in quel momento esistesse nel sistema creditizio italiano. Se il gruppo bancario ex Ambrosiano non fosse stato affidato al pool di istituti riuniti nel Nuovo Banco, sarebbe stato completamente smembrato ovvero assorbito dalla mano pubblica".
Parliamo di una stagione lontana anni luce da quella che viviamo oggi. Allora era la norma, lo Stato padrone imperversava ovunque.
"Sì, allora non era affatto normale che l'autorità si preoccupasse di difendere il settore privato. In un certo senso si deve riconoscere che quell'operazione anticipò la stagione delle privatizzazioni. Il pool di banche che fu messo in piedi per rilevare e rilanciare le attività dell'Ambrosiano era infatti composto per il 50% da quattro banche private (Popolare di Milano, San Paolo di Brescia, Credito Romagnolo e Credito Emiliano) che fronteggiavano il 50% posseduto da tre grandi banche pubbliche (Bnl, San Paolo di Torino e Imi). Per ovviare alla grande sproporzione tra le forze in campo, furono sottoscritti accordi volti a tutelare il 50% della banche private. Ma talvolta la storia ha esiti imprevedibili. Certamente nessuno allora avrebbe potuto immaginare che, nel tempo, sarebbe prevalsa la componente privata".
Torniamo a quel weekend di 25 anni fa.
"Il consiglio di amministrazione del Nuovo Banco Ambrosiano si riunì per la prima volta il venerdì 6, che fu l'ultimo giorno di vita del vecchio Banco. Il lunedì successivo gli sportelli avrebbero dovuto riaprirsi con le insegne "Nuovo Banco Ambrosiano". In appena due giorni furono espletate pratiche che in condizioni normali avrebbero richiesto mesi. Decretare la liquidazione di una banca, farne nascere una nuova, trovare l'accordo tra la nuova banca e i liquidatori della vecchia per la cessione dei beni: tutto fu fatto durante il weekend, con uno scambio serratissimo di documenti tra Milano e Santa Severa, dove Ciampi si trovava per il fine settimana".
E la famosa domenica 8 agosto?
"L'accordo con i liquidatori del Banco Ambrosiano fu firmato, nella sede milanese di Piazza Ferrari, pochi minuti prima della mezzanotte di domenica. Non posso dimenticare il momento in cui apposi la firma su quello storico atto, che ci trasferiva le attività e le passività del vecchio Banco. Avevo accanto a me il presidente del collegio sindacale, che mi esortò sino all'ultimo a non sottoscrivere l'accordo: "Professore, ci pensi bene. Questa firma può portare a conseguenze rovinose. Rovinose per lei personalmente e per tutti coloro che saranno coinvolti in questa avventura.. ."".
Non aveva torto. La rovina la sfioraste più volte, dopo quell'agosto.
"In effetti, i primi due anni furono ad altissimo rischio. L'emorragia dei depositi, già in atto, continuò sino a limiti di rottura. Il primo bilancio, quello dell'82, si chiuse in perdita. Tra l'altro, dovevamo scontare un goodwill, a quel tempo enorme, di 350 miliardi, perché Andreatta era stato inflessibile nel sostenere che anche ad una banca fallita si dovesse riconoscere un avviamento. Negli ambienti finanziari erano molti quelli che preconizzavano il nostro insuccesso. Qualcuno ironizzava: "Al vecchio Banco è succeduto il Nuovo. Ora aspettiamo il Nuovissimo Banco". Fu in quel periodo che Cuccia mi disse la famosa frase: "Salvare l'Ambrosiano è come allacciarsi un cappotto partendo da un bottone sbagliato". Cominciai a temere che avesse ragione quando fui costretto, insieme al direttore generale Gallo, a prendere atto che l'insidia più grave di tutte era quella che minava la compagine del Nuovo Banco al suo interno. Non tutte le banche nostre azioniste si sentivano infatti impegnate a perseguire l'integrità e il rilancio del Banco. Le maggiori di esse, ad eccezione della Bnl, miravano a spartirsi le partecipazioni più pregiate e quindi attendevano con minori patemi di noi il momento in cui il Banco fosse costretto alla loro cessione".
Ricadeva sulle vostre spalle anche la grana del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera: una questione di altissima valenza politica, che incrociava lo scandalo della P2.
"La fase estremamente critica in cui si trovava la Rizzoli scaturiva da una delle più torbide storie dell'Italia di quegli anni. Per due anni la sorte del gruppo editoriale del Corriere fu interamente nelle nostre mani, essendo noi i principali creditori e nello stesso tempo i primi azionisti, tramite il 40% posseduto dalla Centrale (mentre l'altro 40% di Angelo Rizzoli era sotto sequestro). Per fortuna, essendo stata disposta l'amministrazione controllata, tutti i passaggi e le decisioni avvennero sotto il controllo della magistratura. Il che ci mise al riparo dalle insidie più gravi che altrimenti avremmo corso. In quel periodo di emergenza fu essenziale l'opera di risanamento compiuta dai professionisti che mettemmo a capo dell'azienda, soprattutto Angelo Provasoli e Roberto Poli". Ma il rischio di fallimento della Rizzoli restava incombente...
"L'opinione pubblica e anche il mondo politico erano radicalmente divisi. Alcuni infatti sostenevano che si dovesse prendere atto che la Rizzoli era in condizioni di dissesto. Ricordo, su questo punto, un confronto molto civile, ma netto, che io ebbi con Eugenio Scalfari proprio su Repubblica".
C'era anche una normativa che vi imponeva di cedere quella partecipazione? "Sì, questo complicava ulteriormente le cose: le banche non potevano allora detenere azioni di società editoriali. Al Banco Ambrosiano era stata concessa una deroga temporanea. Giampaolo Pansa, in una delle mie prime interviste come presidente, rimase molto colpito - mi presentò come "angelo bianco" - quando gli assicurai che mi sarei dimesso se non avessi potuto rispettare quell'impegno. Dal quale, peraltro, derivava una conseguenza ineluttabile: se al termine dell'amministrazione controllata non avessimo trovato un compratore, non ci sarebbe stata alternativa al fallimento".
Ma lei riuscì a convincere l'Avvocato Agnelli a intervenire...
"Lo avevo conosciuto un anno prima a Cernobbio e si era mostrato assai interessato e incuriosito per il modo, che gli sembrava atipico, con cui avevo affrontato la sfida del Nuovo Ambrosiano. Pochi giorni prima della scadenza dell'amministrazione controllata lo chiamai. La mattina dopo ebbi la risposta positiva. Da allora si instaurò con lui un rapporto che, in ogni caso, io considero tra i più importanti e significativi della mia esperienza".
Quando si rese conto che ce l'aveva fatta, ossia che il Nuovo Ambrosiano era ormai definitivamente fuori dalla palude?
"Ne fui convinto nel maggio del 1985, quando andò in porto l'operazione warrant, riservata agli azionisti del vecchio Banco. La sottoscrizione si chiuse con un pieno successo. Era il segnale che aspettavamo: i vecchi soci, che avevano visto azzerarsi il valore del loro titolo, credevano nel futuro della nuova banca".
Eppure voi avete rischiato più volte di essere preda, invece che predatore. E ogni volta, il regista dell'aggressione è sembrato sempre lui, il Grande Vecchio: Enrico Cuccia.
"Allorché il Nuovo Banco fu risanato e rilanciato (ed è grande merito dei primi manager che l'hanno guidato: Gallo, Trombi, Salvatori), ci trovammo esposti a un diverso tipo di rischio: quello di finire nell'orbita di altri gruppi. La prima volta accadde nell'89, quando la Popolare di Milano decise di vendere la sua quota alle Generali, lasciando agli altri azionisti solo un mese di tempo per l'esercizio di un'eventuale prelazione. Ricevetti tale comunicazione mentre stavo per imbarcarmi per il Fondo Monetario. Non cambiai programma e proprio a Washington mi venne l'idea di proporre l'acquisto di quella quota al Crédit Agricole. Al ritorno ci furono ripetuti miei incontri segreti a Parigi con Philippe Jaffré, numero uno dell'Agricole, che allo scadere del mese presentò l'offerta vincente. Ma successivamente si trovò una soluzione transattiva anche con Generali".
Questo non impedì a via Filodramamtici di riprovarci, giusto?
"Nel '94 la Comit lanciò nei nostri confronti un'Opa del tutto impropria (visto che la legge non esisteva ancora). Fu in quella occasione che l'indipendenza del Banco corse il rischio più grave e che io mi trovai più esposto anche personalmente, perché l'obiettivo della Comit era quello di acquisire il controllo, ma anche di mettere in difficoltà sia la Banca San Paolo e la Mittel, da me rappresentate, sia il Crédit Agricole che cinque anni prima aveva osato sfidare il "salotto buono". L'aggressione fu respinta al termine di alcuni giorni che furono tra i più drammatici dell'intera mia esperienza. Nel '97, infine, la Comit si contrappose a noi nell'acquisto della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Anche questo è un capitolo di sapore romanzesco della nostra storia, perché nel frattempo tra me e Cuccia si era instaurato un rapporto così positivo e confidenziale che io gli avevo parlato della nostra intenzione sulla Cariplo. Lui mi aveva incoraggiato a procedere. Senonché, all'ultimo momento, spuntò un'offerta concorrenziale, ricalcata sulla nostra, da parte della Comit. Cuccia allora mi scrisse e prese esplicitamente le distanze da tale iniziativa. Il giorno dopo la Fondazione Cariplo approvò all'unanimità la nostra offerta. Quell'operazione diede il via a una stagione di straordinaria crescita grazie all'acquisizione della stessa Comit e alla svolta impressa da Corrado Passera: fino all'incontro della nostra storia con quella della grande banca torinese, il Sanpaolo Imi".
Che idea si è fatto di Cuccia, dopo tutte queste battaglie?
"E' impossibile esprimere in poche parole un giudizio su un uomo dalla personalità così complessa. Un protagonista della finanza e insieme un uomo di profondo spessore spirituale e di rara finezza culturale. Ma anche con lati enigmatici, difficilmente penetrabili. Il mio rapporto con lui ha avuto fasi alterne: ad un primo periodo di competizione subentrò un'esperienza di singolare vicinanza, sino al punto che nell'ottobre del '99 egli volle che la Comit, la sua creatura prediletta, fosse acquistata da noi".
Professor Bazoli, adesso parliamo un po' dei rapporti con i politici, perché lei in tutti questi anni di politica ne ha conosciuta parecchia.
"In nessun Paese del mondo è possibile gestire una grande banca o un grande gruppo industriale senza avere rapporti con il sistema politico. L'importante è che tali rapporti siano affrontati in una condizione di piena libertà e indipendenza. Quando, ad esempio, ai primi di ottobre del 1984, Craxi mi incontrò nei suoi uffici di Piazza Duomo e volle sapere con chi stavo trattando per il subentro nella Rizzoli, io rifiutai di rispondere, perché Agnelli mi aveva posto la condizione della riservatezza sino alla presentazione dell'offerta. Craxi replicò, gelido: "Allora i nostri rapporti si interrompono qui".... E da allora non ci siamo più incontrati".
Eppure di lei si continua a ripetere: è amico di Prodi, e per questo la fusione Intesa-San Paolo è targata Ulivo.
"Conosco e sono amico di Romano Prodi dai tempi dell'Università, ma posso affermare, senza tema di smentita, di non avere mai ricevuto da lui, come presidente del Consiglio, né una richiesta né un favore. A dimostrare l'assoluta inconsistenza dell'opinione secondo cui la crescita della nostra banca sia collegabile ad un determinato orientamento politico, può servire proprio il richiamo alla storia di cui abbiamo sin qui parlato, che è la storia di una delle due banche che hanno dato vita al nostro attuale gruppo. E non occorrerà poi ricordare ancora una volta come la fusione tra Banca Intesa e San Paolo Imi sia maturata senza interferenze e addirittura all'insaputa del potere politico".
Lei però nel 2000 fu indicato come leader del centrosinistra.
"E questo mi è rimasto cucito addosso come un segno indelebile. Ma, da quando ho questo incarico di banchiere, mi sono sempre imposto di astenermi da qualunque forma di impegno politico diretto. Ritengo che chi presiede una grande banca non debba poter essere giudicato "di parte" dai suoi dipendenti e dai suoi clienti: a questa regola mi sono sempre attenuto. E non credo di cadere in contraddizione se contemporaneamente affermo di seguire personalmente con interesse le vicende politiche e di avere grande rispetto per chi si impegna nel campo pubblico. Mi piace dire questo in una stagione in cui nel nostro Paese sembra prevalere l'"antipolitica"".
Ma quanto è cambiato il sistema bancario, da quell'agosto infuocato di 25 anni fa ad oggi?
"Sembra di vivere in un altro pianeta. Nonostante le tante critiche che continuano a piovere sul sistema, va riconosciuto che il mondo bancario italiano ha compiuto progressi enormi. Il processo di liberalizzazione e le privatizzazioni, favorite dalla legge Amato e poi dalla legge Ciampi, hanno prodotto una trasformazione epocale del sistema. Fondamentale in questo processo è stato anche il ruolo svolto dalle Fondazioni, che si collocano oggi tra i più importanti corpi intermedi della nostra società, oltre a essere preziosi investitori di lunga durata".
E oggi?
"Oggi abbiamo due gruppi creditizi di dimensioni inedite nel nostro Paese, capaci di giocare un ruolo da protagonisti in ambito europeo. Accanto a questi vi sono altri istituti che operano a livello nazionale o locale e che hanno raggiunto apprezzabili livelli di solidità e di efficienza. Inoltre sul mercato si registra una competizione che era impensabile fino a pochissimi anni fa".
D'accordo, ma sui costi non siamo ancora allineati agli standard europei, come non cessa di ricordarvi Mario Draghi.
"Questi richiami vanno accolti con la massima attenzione perché rappresentano uno stimolo a ricercare, come è sempre necessario fare, risultati migliori. Ma se mi volto indietro, se ripenso a quel week-end di agosto del 1982, non posso fare a meno di stupirmi del cammino compiuto sia dalla nostra banca sia dall'intero sistema".
(7 agosto 2007)
lunedì, agosto 06, 2007
La lezione del crac Ambrosiano


No alla commistione banche-politica
Per non ripetere gli errori di ieri maggiore concorrenza, mercati più aperti e controlli interni efficaci
di
Mario Draghi
Per non ripetere gli errori di ieri maggiore concorrenza, mercati più aperti e controlli interni efficaci
di
Mario Draghi
La crisi iniziò a manifestarsi nel giugno del 1982: il Banco Ambrosiano era, in un contesto dominato dalle banche di proprietà pubblica, fra le maggiori banche private italiane. Anche per questo, la crisi e le sue possibili ripercussioni sistemiche apparvero gravi. A provocarla furono operazioni fraudolente di enormi dimensioni: i poteri aziendali erano accentrati in capo a una sola persona, il presidente Roberto Calvi, che aveva costruito un conglomerato basato su un'articolazione estera complessa e opaca. Il ministro del Tesoro dell'epoca, Nino Andreatta , definì in Parlamento quella gestione «al di fuori di ogni logica bancaria». Di fatto Calvi esercitava un potere assoluto su tutte le attività del Banco, aveva esautorati il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale. La spoliazione occulta dell'azienda avveniva attraverso le consociate estere, nel Lussemburgo , in Perù , a Nassau , dove transitarono verso una destinazione finale che mai fu del tutto chiarita 744 milioni di dollari, pari a oltre 1.000 miliardi di lire dell'epoca, 1,6 miliardi di euro dei giorni nostri. Gran parte fu perduta.
Pur rilevando aree oscure nella gestione del Banco, per parecchio tempo la Banca d'Italia
non riuscì a incidere veramente per correggerla. L'ostruzionismo fraudolento dei suoi amministratori e, soprattutto, l'inadeguatezza delle norme di legge e regolamentari impedirono una percezione tempestiva dello stato di difficoltà del Banco. Le norme allora in vigore erano palesemente inidonee a consentire una efficace vigilanza su una banca con estese ramificazioni estere, molto attiva nei paradisi fiscali, difforme dai modelli prevalenti nel sistema bancario italiano del tempo. Quando, dopo i reiterati e infruttuosi richiami del Governatore Carlo Azeglio Ciampi al consiglio di amministrazione, si arrivò finalmente a scoprire la situazione gravissima del Banco, non vi era più spazio per un risanamento: il 14 giugno del 1982, due giorni dopo la notizia della misteriosa scomparsa di Calvi, la Banca d'Italia avviò una ulteriore ispezione; il 17 giugno il
ministro del Tesoro , su proposta della stessa Banca d'Italia, dispose lo scioglimento degli organi amministrativi del Banco. Fu nominato in via d'urgenza un Commissario provvisorio, Vincenzo Desario , a quel tempo ispettore della Vigilanza, successivamente Direttore generale della Banca d'Italia.
Il 18 giugno fu ritrovato il cadavere di Calvi. Il 19 giugno l'amministrazione straordinaria del Banco fu affidata a Giovanni Battista Arduino, Alberto Bertoni e Antonino Occhiuto: un esperto banchiere a riposo, un docente di economia aziendale alla Bocconi , un ex membro del Direttorio della Banca d'Italia, in quel momento presidente dell'Istituto Italiano di Credito Fondiario. Rimasero in carica meno di due mesi: chiarita la situazione contabile, il 6 agosto 1982 il Banco Ambrosiano venne posto in liquidazione. La struttura nazionale della banca era però sana e funzionante: i dipendenti erano in grandissima parte estranei alla frode; la rete di relazioni con la clientela era vasta e proficua. La Banca d'Italia separò la responsabilità dell'imprenditore dall'azienda, di cui preservò la parte buona. I risparmiatori vennero tutelati. I creditori del vecchio Banco furono soddisfatti, con l'eccezione di quelli delle filiazioni estere, attraverso le quali si erano create le perdite; questi lo furono solo in parte. Anche grazie all'opera di persuasione di Beniamino Andreatta e di Carlo Azeglio Ciampi un gruppo di banche, pubbliche ( Banca Nazionale del Lavoro , Imi, Istituto San Paolo di Torino) e private ( Banca Popolare di Milano, Banca San Paolo di Brescia, Credito Emiliano e Credito Romagnolo), seppero percepire il valore ancora insito nell'azienda bancaria e apportarono nuovo capitale per 600 miliardi di lire, pari a quasi un miliardo di euro di oggi.
Nacque così il Nuovo Banco Ambrosiano, la cui presidenza fu affidata fin dal 6 agosto 1982 a Giovanni Batoli . Il Nuovo Banco acquisì le attività e le passività del vecchio in liquidazione, pagando a quest'ultimo l'elevata somma di 350 miliardi di lire (oltre mezzo miliardo di euro di oggi) per l'avviamento. Il 9 agosto riaprirono gli sportelli con le nuove insegne. Il denaro pubblico impiegato nella liquidazione del vecchio Banco può stimarsi pari a meno di 300 milioni di euro di oggi. Il Nuovo Banco, libero dalle deviazioni del vecchio, manifestò presto una crescita vivace. Giocò un ruolo importante nel consolidamento del sistema bancario italiano, un ruolo che lo ha visto protagonista del periodo storico iniziato in quella estate del 1982 e conclusosi con l'operazione di fusione tra la Banca Intesa e l'Istituto San Paolo di Torino.
Alla luce di questi sviluppi, l'opera della Vigilanza della Banca d'Italia di allora appare oggi preziosa. A tessere le fila della transizione dal vecchio al nuovo Banco si distinse, fra gli altri, un giovane e brillantissimo funzionario, a capo dell'Ufficio Gestioni straordinarie e liquidazioni, Gabriele Berionne, prematuramente scomparso qualche anno dopo. Di quell'opera, svolta in stretta collaborazione con i liquidatori, beneficiarono anche l'accertamento delle responsabilità e il recupero dell'attivo. Vi fu un seguito istituzionale: nel 1983 venne stipulato il concordato di Basilea, che affermò il principio del consolidamento dei bilanci bancari. Da allora i supervisori possono valutare la situazione complessiva di un gruppo bancario indipendentemente da come attività e passività sono allocate fra casa madre e filiazioni estere. Iniziò in quell'occasione una intensa collaborazione internazionale tra le autorità di vigilanza che prosegue oggi in un continuo adeguamento agli sviluppi del mercato.
Ma da quella esperienza derivò anche un altro insegnamento fondamentale: i controlli esterni, tra cui quelli di vigilanza, con difficoltà riescono a prevenire situazioni di crisi specialmente quando vi è frode da parte degli amministratori. Più in generale, solo controlli interni efficaci, predisposti da organi aziendali ben regolati e funzionanti, possono rilevare tempestivamente i prodromi di situazioni critiche. La supervisione bancaria è efficace solo se nelle banche vigilate è assicurata la funzionalità della loro governance: da ciò l'attenzione con cui la Banca d'Italia ne segue le recenti innovazioni. Anche il ricordo dell'ambiente in cui avvenne lo scandalo dell' Ambrosiano può aiutarci a non ripeterne i tratti: poca concorrenza in un mercato del credito minutamente regolato dalle Autorità; mercati finanziari di scarso spessore al servizio di pochi individui; onnipresente commistione tra banche e politica; rigidi controlli sui movimenti di capitale che mortificavano la già debole proiezione internazionale delle nostre banche più grandi, mentre le piccole, orgogliose del campanile, respingevano ogni cambiamento. In un contesto oggi profondamente diverso, è cambiata, sta cambiando, la vigilanza della Banca d'Italia. Sulla profonda conoscenza del sistema bancario italiano, dei suoi protagonisti, della sua storia, essa vuole oggi innestare la tempestiva percezione delle direzioni di marcia della finanza internazionale, del moto delle forze di mercato; vi adegua le proprie strutture operative, con la consapevolezza dei suoi limiti di fronte a sviluppi incessanti di grandi dimensioni, ma con la determinazione che ne ha caratterizzato la storia.
06 agosto 2007
martedì, luglio 31, 2007
lunedì, luglio 30, 2007
mercoledì, luglio 25, 2007
sabato, luglio 21, 2007
venerdì, luglio 20, 2007
sabato, luglio 14, 2007
La seconda vita di Fiorani "In tv darò consigli ai truffati"

Torna in pista uno dei protagonisti dell'estate dei "furbetti" sotto accusa nell'inchiesta sulla scalata ad Antonveneta
Fazio? In Olanda e Francia fanno come lui.
Fazio? In Olanda e Francia fanno come lui.
Alla fine hanno vinto Tremonti e Geronzi dal nostro inviato
LODI - Non esordisce, come fanno in tanti, sostenendo che il carcere l'ha cambiato. Piuttosto che grazie ai quei quattro mesi a San Vittore si sente come "chi non ha più nulla da perdere ma molto da raccontare". E che, d'ora in poi, non perderà più occasione per dimostrarlo. Con tutti gli strumenti possibili: un libro, una trasmissione tv, partecipazioni a convegni, conferenze. "Ma tutto il ricavato andrà in beneficenza, per me non voglio nulla". Un anno fa in questo stesso periodo Gianpiero Fiorani, il manager che ha portato la ex Popolare Lodi da semisconosciuto istituto di provincia fino ai vertici della finanza italiana, usciva dal carcere. Dove era finito in seguito all'inchiesta per il tentativo di scalata ad Antonveneta, accusato di aver arrangiato i conti della sua banca, di aver trafficato con i vari Ricucci, Gnutti, Consorte e persino con l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio per realizzare il suo progetto. Di essersi arricchito illegalmente. Di aver finanziato con i soldi della Lodi il tentativo di scalata al Corriere della Sera. Per undici mesi si è nascosto, o quasi. "Non potevo fermare lo tsunami con un ombrellino. Dovevo aspettare che passasse l'ondata". Poi la svolta e la decisione di uscire allo scoperto: "Non dovevano attaccare la mia famiglia". Prima compare a una partita di pallanuoto in Liguria, poi attacca i nuovi vertici della Banca, quindi chiede di presentare una nuova memoria ai giudici. Fino a diventare uno dei protagonisti dell'estate del gossip: presenza quasi fissa al Billionaire di Briatore, foto in braccio al tronista Costantino, tenere effusioni con Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti. Lo incontriamo in un agriturismo vicino a Lodi. È rilassato, abbronzato, solo con qualche chilo di troppo.
È vero che pubblicherà un libro e che l'ha iniziato a San Vittore? "È vero. Anche se i primi giorni pensavo solo a suicidarmi. Ci ho provato con un sacchetto di plastica in testa. Era orribile: Gloria, mia moglie, mi portava i cerotti perché di notte non mi entrassero in bocca gli scarafaggi. Mi ha aiutato il mio compagno di cella. Un cinquantenne palermitano, accusato di rapina in banca". Una beffa del destino... "Era pure analfabeta. Scrivevo per lui lettere d'amore alle fidanzate. Poi ho iniziato il libro. È un romanzo, la storia è ambientata in Francia, c'è un imprenditore che vuole scalare una società molto più grande della sua, interviene la Consob francese, la magistratura..." Il protagonista finisce in carcere? "Sarà una sorpresa, ma non c'è, purtroppo, un lieto fine". L'editore? "Ho già contatti con Feltrinelli, Mondadori e Rizzoli. Sarebbe bello se fosse Rcs dopo che hanno detto che la volevo scalare". È vero che in questa operazione aveva l'appoggio di Berlusconi? "Berlusconi si è sempre fatto i fatti suoi. E Ricucci non voleva scalare il Corriere. Era solo una speculazione: comprava per vendere ai francesi di Lagardère. Ai quali interessava prendere un 20% e aspettare la scadenza del patto di sindacato". Ma Ricucci lo ha finanziato lei. Ricambiava il favore per il sostegno alla scalata ad Antonveneta? "A Ricucci i soldi li ho dati, ma ha messo le azioni in garanzia, che sono poi rimaste alla Lodi. E come le hanno vendute? Hanno dato l'incarico ad un advisor storico di Benetton. E a chi sono finite? A Benetton". Lei è la causa delle dimissioni dell'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Ma le sembra che in un paese normale il controllato e il controllore si telefonino a mezzanotte per passarsi notizie riservate e che lei lo ringrazi mandandogli un bacio in fronte? "Perché all'estero cosa fanno? In Olanda dopo averci attaccato perché non consentivamo ad Abn Amro di prendere Antonveneta il governatore della banca centrale si è messo di traverso sulla cordata di Royal Bank of Scotland. E in Francia? Non hanno appena dichiarato che è importante che le banche rimangano sotto il controllo di soci nazionali perché sono fondamentali per lo sviluppo del paese?" Fazio che doveva garantire le regole del gioco ne ha inventato uno: la nascita di due nuovi colossi bancari, uno al centrodestra e uno al centrosinistra. "Il disegno era più grande: Lodi-Antonveneta avrebbe avuto le dimensioni per poter poi fondersi con Capitalia. Mentre Unipol-Bnl si sarebbe poi unito con Mps. Ma l'atto definitivo sarebbe stato quello di mettere tutto insieme per dar vita al più grande gruppo bancario-assicurativo d'Europa". Peccato che avete cercato di scalare Antonveneta aggirando le regole. "Da quando ci hanno obbligati all'Opa ogni nostra operazione è stata denunciata alla Consob. I contatti con il presidente Cardia erano quotidiani. Poi, si immagini, il figlio di Cardia era (e lo è tutt'ora, ndr) consulente legale della Popolare Lodi". L'intervento della magistratura ha fatto saltare il piano. "Non è stata una vittoria dei giudici. L'ho anche detto durante gli interrogatori al pm Greco che reputo una delle persone più intelligenti d'Italia". Chi ha vinto, allora? "Tremonti e Geronzi. Due che nel nostro paese contano parecchio". Ritiene, quindi, di essere vittima dello scontro tra Fazio e l'allora ministro dell'Economia. Mentre Geronzi si è mosso quando ha capito che miravate a Capitalia. È così? "Si, perché i Ds erano favorevoli con D'Alema che spingeva per Mps e Fassino per Bnl. Tremonti ha fatto il suo mestiere, si è trattato di battaglie. Si sa, in guerra come in amore vale tutto. Ma Geronzi è il più forte, ce li ha tutti in mano". Lei ha finanziato gli esponenti politici per sostenere Fazio e la vostra scalata. Li contattava lei o si proponevano loro? "Ma erano quattro soldi. Si pagavano la campagna elettorale, nemmeno quarantamila euro alla volta. Mi chiedevano di finanziare libri sugli alpini, robe così". L'hanno accusata di aver sottratto soldi dai conti correnti dei defunti. "Questa poi è pazzesca: ho lavorato allo sportello solo all'inizio della mia carriera, tanti anni fa, non c'erano nemmeno i computer. Non li saprei togliere ai vivi, figuriamoci ai morti". Non ha mai pensato che stava facendo crescere la Popolare di Lodi violando regole e leggi? "Lo ripeto, di tutte le nostre mosse abbiano avvisato gli organi competenti. Ma una cosa ho capito da tutta questa vicenda: le fusioni tra banche si fanno solo se uno degli istituti è in difficoltà finanziarie oppure se ci sono problemi di governance e di poltrone. Ci pensi: guardi cosa è successo di recente fra la Popolare Milano e l'Emilia Romagna. La fusione è saltata nonostante l'intervento di Draghi". Cosa vorrebbe dire? "Sulla Milano non c'erano i francesi di Crédit Mutuelle? E lui non è intervenuto suggerendo che era meglio allearsi con l'Emilia? A proposito: se lo avesse fatto Fazio ai tempi lo avrebbero giustiziato in piazza a Lodi a testa in giù. Ma si vede che i tempi sono cambiati". Non solo quelli. Sta più lei sulle pagine dei rotocalchi rosa che i divi delle telenovela. La vedremo in tv? "Sto trattando per una trasmissione su Rai Due da ottobre, al pomeriggio, in cui parlerò in difesa dei diseredati, dei cittadini truffati dalle finanziarie e dalle banche. Me lo ha chiesto il direttore della rete Antonio Marano". Che è leghista. Così diranno che la ricompensano per aver rilevato con la Popolare Lodi il Credieuronord, l'istituto fondato da Bossi, che su 40 milioni di impieghi ne aveva 8 di sofferenze. "E se lo facevo su Canale 5 avrebbero detto che sono amico di Berlusconi". Le attribuiscono decine di società immobiliari e un tesoretto di 100 milioni. "Al momento ho tutto bloccato, anche il Bancomat che mi hanno ritirato pochi giorni fa a Cagliari. I nuovi amministratori della Lodi hanno agito contro di me. Ma io l'ho detto ai giudici che tutto ciò che avevo è stato messo a disposizione, anche i soldi all'estero. Vorrei sapere che danni ho fatto. Chi può vantare pretese nei miei confronti: si faccia avanti". I cambiamenti nella sua vita coinvolgeranno anche la sua famiglia? "Si riferisce alle foto con la figlia di Ornella Muti? No, mia moglie può stare tranquilla sono da sempre innamorato pazzo di lei. È stata tutta una combinazione. Ho pensato che in estate interessa solo la cronaca rosa. Il bacio che ho dato a Naike lo veda come quello dato in fronte a Fazio: chi mi conosce lo sa che sono fatto così".
È vero che pubblicherà un libro e che l'ha iniziato a San Vittore? "È vero. Anche se i primi giorni pensavo solo a suicidarmi. Ci ho provato con un sacchetto di plastica in testa. Era orribile: Gloria, mia moglie, mi portava i cerotti perché di notte non mi entrassero in bocca gli scarafaggi. Mi ha aiutato il mio compagno di cella. Un cinquantenne palermitano, accusato di rapina in banca". Una beffa del destino... "Era pure analfabeta. Scrivevo per lui lettere d'amore alle fidanzate. Poi ho iniziato il libro. È un romanzo, la storia è ambientata in Francia, c'è un imprenditore che vuole scalare una società molto più grande della sua, interviene la Consob francese, la magistratura..." Il protagonista finisce in carcere? "Sarà una sorpresa, ma non c'è, purtroppo, un lieto fine". L'editore? "Ho già contatti con Feltrinelli, Mondadori e Rizzoli. Sarebbe bello se fosse Rcs dopo che hanno detto che la volevo scalare". È vero che in questa operazione aveva l'appoggio di Berlusconi? "Berlusconi si è sempre fatto i fatti suoi. E Ricucci non voleva scalare il Corriere. Era solo una speculazione: comprava per vendere ai francesi di Lagardère. Ai quali interessava prendere un 20% e aspettare la scadenza del patto di sindacato". Ma Ricucci lo ha finanziato lei. Ricambiava il favore per il sostegno alla scalata ad Antonveneta? "A Ricucci i soldi li ho dati, ma ha messo le azioni in garanzia, che sono poi rimaste alla Lodi. E come le hanno vendute? Hanno dato l'incarico ad un advisor storico di Benetton. E a chi sono finite? A Benetton". Lei è la causa delle dimissioni dell'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Ma le sembra che in un paese normale il controllato e il controllore si telefonino a mezzanotte per passarsi notizie riservate e che lei lo ringrazi mandandogli un bacio in fronte? "Perché all'estero cosa fanno? In Olanda dopo averci attaccato perché non consentivamo ad Abn Amro di prendere Antonveneta il governatore della banca centrale si è messo di traverso sulla cordata di Royal Bank of Scotland. E in Francia? Non hanno appena dichiarato che è importante che le banche rimangano sotto il controllo di soci nazionali perché sono fondamentali per lo sviluppo del paese?" Fazio che doveva garantire le regole del gioco ne ha inventato uno: la nascita di due nuovi colossi bancari, uno al centrodestra e uno al centrosinistra. "Il disegno era più grande: Lodi-Antonveneta avrebbe avuto le dimensioni per poter poi fondersi con Capitalia. Mentre Unipol-Bnl si sarebbe poi unito con Mps. Ma l'atto definitivo sarebbe stato quello di mettere tutto insieme per dar vita al più grande gruppo bancario-assicurativo d'Europa". Peccato che avete cercato di scalare Antonveneta aggirando le regole. "Da quando ci hanno obbligati all'Opa ogni nostra operazione è stata denunciata alla Consob. I contatti con il presidente Cardia erano quotidiani. Poi, si immagini, il figlio di Cardia era (e lo è tutt'ora, ndr) consulente legale della Popolare Lodi". L'intervento della magistratura ha fatto saltare il piano. "Non è stata una vittoria dei giudici. L'ho anche detto durante gli interrogatori al pm Greco che reputo una delle persone più intelligenti d'Italia". Chi ha vinto, allora? "Tremonti e Geronzi. Due che nel nostro paese contano parecchio". Ritiene, quindi, di essere vittima dello scontro tra Fazio e l'allora ministro dell'Economia. Mentre Geronzi si è mosso quando ha capito che miravate a Capitalia. È così? "Si, perché i Ds erano favorevoli con D'Alema che spingeva per Mps e Fassino per Bnl. Tremonti ha fatto il suo mestiere, si è trattato di battaglie. Si sa, in guerra come in amore vale tutto. Ma Geronzi è il più forte, ce li ha tutti in mano". Lei ha finanziato gli esponenti politici per sostenere Fazio e la vostra scalata. Li contattava lei o si proponevano loro? "Ma erano quattro soldi. Si pagavano la campagna elettorale, nemmeno quarantamila euro alla volta. Mi chiedevano di finanziare libri sugli alpini, robe così". L'hanno accusata di aver sottratto soldi dai conti correnti dei defunti. "Questa poi è pazzesca: ho lavorato allo sportello solo all'inizio della mia carriera, tanti anni fa, non c'erano nemmeno i computer. Non li saprei togliere ai vivi, figuriamoci ai morti". Non ha mai pensato che stava facendo crescere la Popolare di Lodi violando regole e leggi? "Lo ripeto, di tutte le nostre mosse abbiano avvisato gli organi competenti. Ma una cosa ho capito da tutta questa vicenda: le fusioni tra banche si fanno solo se uno degli istituti è in difficoltà finanziarie oppure se ci sono problemi di governance e di poltrone. Ci pensi: guardi cosa è successo di recente fra la Popolare Milano e l'Emilia Romagna. La fusione è saltata nonostante l'intervento di Draghi". Cosa vorrebbe dire? "Sulla Milano non c'erano i francesi di Crédit Mutuelle? E lui non è intervenuto suggerendo che era meglio allearsi con l'Emilia? A proposito: se lo avesse fatto Fazio ai tempi lo avrebbero giustiziato in piazza a Lodi a testa in giù. Ma si vede che i tempi sono cambiati". Non solo quelli. Sta più lei sulle pagine dei rotocalchi rosa che i divi delle telenovela. La vedremo in tv? "Sto trattando per una trasmissione su Rai Due da ottobre, al pomeriggio, in cui parlerò in difesa dei diseredati, dei cittadini truffati dalle finanziarie e dalle banche. Me lo ha chiesto il direttore della rete Antonio Marano". Che è leghista. Così diranno che la ricompensano per aver rilevato con la Popolare Lodi il Credieuronord, l'istituto fondato da Bossi, che su 40 milioni di impieghi ne aveva 8 di sofferenze. "E se lo facevo su Canale 5 avrebbero detto che sono amico di Berlusconi". Le attribuiscono decine di società immobiliari e un tesoretto di 100 milioni. "Al momento ho tutto bloccato, anche il Bancomat che mi hanno ritirato pochi giorni fa a Cagliari. I nuovi amministratori della Lodi hanno agito contro di me. Ma io l'ho detto ai giudici che tutto ciò che avevo è stato messo a disposizione, anche i soldi all'estero. Vorrei sapere che danni ho fatto. Chi può vantare pretese nei miei confronti: si faccia avanti". I cambiamenti nella sua vita coinvolgeranno anche la sua famiglia? "Si riferisce alle foto con la figlia di Ornella Muti? No, mia moglie può stare tranquilla sono da sempre innamorato pazzo di lei. È stata tutta una combinazione. Ho pensato che in estate interessa solo la cronaca rosa. Il bacio che ho dato a Naike lo veda come quello dato in fronte a Fazio: chi mi conosce lo sa che sono fatto così".
(14 luglio 2007)
martedì, luglio 10, 2007
mercoledì, giugno 27, 2007
sabato, giugno 16, 2007
Lo scenario descritto in sette interrogatori dall'ex raider che due anni fa tentò la conquista del Corriere.

E il "furbetto" parla di Berlusconi e D'Alema
Ricucci ai pm di Roma: Caltagirone mi disse che c'era un progetto bipartisan
Il costruttore-editore indicato come interfaccia di Fiorani e interlocutore di Fazio
Stefano Ricucci, sostiene Ricucci, fu Francesco Gaetano Caltagirone a spiegare come, in quel momento, andavano le cose in Italia. Lo prese da parte. Gli disse: "Tu devi capire che questa è un'operazione di sistema, è di qua, è di là". Ricucci capì, ma l'aveva già capito. "Dotto', dice al pubblico ministero, era il segreto di Pulcinella" come lui, Ricucci, era il topo nel formaggio, in quei mesi del 2005, infilato in tutte le operazioni (Rcs, Bnl), a bordo di tutti i vascelli (con la destra e con la sinistra).
Con Silvio Berlusconi, nell'avventura dell'assalto alla Rizzoli-Corriere della Sera. Con la Quercia, nell'operazione che sostiene Unipol nell'acquisizione della Banca Nazionale del Lavoro. Incontra Berlusconi e lo "tiene informato", ogni fine settimana, attraverso Aldo Livolsi e Romano "Pippo" Comincioli e, ogni quindici giorni, attraverso Alejandro Agag. Tiene il filo con i Ds attraverso Nicola Latorre, "perché, vedete dotto', io Berlusconi non l'ho mai votato, io ho sempre votato... comunque Berlusconi io lo stimo come imprenditore, come politico per me non vale niente...".
Stefano Ricucci parla, in sette lunghissimi estenuanti interrogatori ai pubblici ministeri di Roma Giuseppe Cascini e Rodolfo Maria Sabelli che hanno trovato riscontri e conferme a un racconto che giudicano monco magari, e troppo prudente. Ricucci è arguto, elusivo, cinico, disinvolto, spaventato, furbissimo, spudorato. Parla senza argini. Si contraddice. Dissimula. Cade in contraddizione. Si corregge. Ammette. Racconta, a volte, nel dettaglio. In qualche caso, rivela. Spesso insinua. E quando rivela, si morde subito la lingua e si nasconde: "Ma io che gli devo dire, ma scusi no? Mica siamo amici, io e lei. Ma io che ne so! Mi faccia uscire dalla galera e parliamo a cena e gli spiego le cose... Mica così, da pubblico ministero a carcerato? Ma scusi! Io già gli ho detto molto!".
"Non c'è un caso, c'è solo rumore" Massimo D'Alema è abile. Incappa in un colloquio intercettato. Si ritrova impiccato a un "Vai, facci sognare!", regalato all'amico Gianni Consorte (con l'Unipol è alla conquista della Banca Nazionale del Lavoro). L'incitamento è un frammento di intercettazioni contrabbandato alla meno peggio nei corridoi di un Palazzo di Giustizia. Il fenomeno (deforme) non è nuovo per l'Italia (anzi). E' figlio della dappocaggine di un Parlamento che legifera senza conoscere le leggi, i problemi e spesso la lingua italiana. Dell'impotenza di un ceto politico che ha lasciato deperire il processo in una crisi di efficienza, risultati e credibilità fino a farne un ordigno perverso e maligno che sanziona prima dell'accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle.
Di una cultura della magistratura tentata dall'autorappresentazione di "custode" in lotta per la salus rei pubblicae e quindi dall'esito comunque ottenuto e non da un modello ideologicamente neutro, dove un esito vale l'altro, purché ottenuto attraverso un fair trial, un processo leale. L'abilità di D'Alema è nel passo laterale. Rievoca con sdegno il grumo di problemi lasciati marcire (ogni giorno "macinano" la vita di migliaia di italiani). Definisce "un'indecenza" le cronache. Liquida quelle conversazioni così: "Non solo non c'è un reato, ma non sono nemmeno moralmente sconvenienti". Conclude: "Non c'è un caso, c'è solo rumore". E' vero. Sottratto al discorso pubblico il "caso", resta soltanto il rumore. Ma il "caso politico" c'è o non c'è? La questione sembra questa.
Il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Massimo D'Alema con l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi"Gianni Letta chiamò D'Alema" Una prima scena aiuta a capirla. L'ha raccontata qualche tempo fa, giusto Gianni Consorte. Era il tempo della pubblicazione della sua conversazione con Piero Fassino ("Abbiamo una banca!") che non era agli atti del pubblico ministero e una "manina" maligna consegnò al Giornale. Giorni irrequieti, di vigilia elettorale. Che cosa si saranno detti Consorte e D'Alema? Soprattutto che cosa si sono detti in un colloquio, a quanto si diceva nei corridoi, molto, ma molto imbarazzante. Era stato, forse, D'Alema ad avvertire Consorte, per dire, delle intercettazioni in corso? Il presidente dell'Unipol minimizzava: "Ma no!, era accaduto che io non volevo più comprare il 2 e passa per cento di azioni Bnl di Vito Bonsignore. Bonsignore s'era rivolto a Gianni Letta (allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Massimo, in quella telefonata, mi riferiva la cosa chiedendomi di risolvere il problema. Presi così anche quel due per cento". Politici di campo opposto (Letta, D'Alema) concordano operazioni finanziarie che vengono accettate da finanzieri con interessi opposti (Consorte, Bonsignore). La scena conferma la concretezza di quel che Giuseppe Oddo e Giovanni Pons hanno definito "L'Intrigo" (Feltrinelli).
Il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Massimo D'Alema con l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi"Gianni Letta chiamò D'Alema" Una prima scena aiuta a capirla. L'ha raccontata qualche tempo fa, giusto Gianni Consorte. Era il tempo della pubblicazione della sua conversazione con Piero Fassino ("Abbiamo una banca!") che non era agli atti del pubblico ministero e una "manina" maligna consegnò al Giornale. Giorni irrequieti, di vigilia elettorale. Che cosa si saranno detti Consorte e D'Alema? Soprattutto che cosa si sono detti in un colloquio, a quanto si diceva nei corridoi, molto, ma molto imbarazzante. Era stato, forse, D'Alema ad avvertire Consorte, per dire, delle intercettazioni in corso? Il presidente dell'Unipol minimizzava: "Ma no!, era accaduto che io non volevo più comprare il 2 e passa per cento di azioni Bnl di Vito Bonsignore. Bonsignore s'era rivolto a Gianni Letta (allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Massimo, in quella telefonata, mi riferiva la cosa chiedendomi di risolvere il problema. Presi così anche quel due per cento". Politici di campo opposto (Letta, D'Alema) concordano operazioni finanziarie che vengono accettate da finanzieri con interessi opposti (Consorte, Bonsignore). La scena conferma la concretezza di quel che Giuseppe Oddo e Giovanni Pons hanno definito "L'Intrigo" (Feltrinelli).
Un disegno che va in scena tra la fine dell'inverno e l'estate del 2005 quando, frutto della confluenza di interessi e convenienze diverse e opposte, forze politiche, oligarchie bancarie, consorterie finanziarie si associano temporaneamente sotto banco, concertano le loro iniziative in modo opaco. I Ds di D'Alema vogliono rafforzare il mondo cooperativo affiancandolo alla Bnl. Vogliono trasformare Unipol in un grande attore della finanza e dell'editoria con l'acquisizione anche del Gruppo Riffeser (Nazione, Resto del Carlino, Giorno), come ammette anche Consorte quando è in vena di sincerità. Silvio Berlusconi vuole creare un polo bancario gradito alla Lega (Bpi, Antonveneta) e mettere le mani sul Corriere della Sera per contrapporlo al gruppo L'Espresso-la Repubblica e dopo il Corriere, sottratto alla presa di Mediobanca, forse anche Generali, chissà. L'Intrigo si avvantaggia dell'ambizione di Antonio Fazio di occupare al Colle la poltrona lasciata presto libera da Ciampi; della capacità di Gnutti, Consorte, Fiorani e (nome che non viene mai profferito) Francesco Gaetano Caltagirone di avere rapporti con tutti; di immobiliaristi o nouveaux entrepreneurs come Stefano Ricucci disponibili ad affrontare qualsiasi avventura se può procurare plusvalenze, denaro sonante tassato al 12 per cento, nel minor tempo possibile.
Nell'affresco che Ricucci affida ai magistrati compaiono Berlusconi, D'Alema, Letta, Fassino, Prodi, Rovati, Fazio, misteriosi argentini, una banca enigmatica, qualche cappuccio massonico, banchieri che si accreditano su l'uno e l'altro fronte... Nelle migliaia di pagine dove sono trascritte le dichiarazioni del "furbetto", si intravede la qualità di un "caso" assai rumoroso in cui una politica debole e per nulla trasparente sostiene affari fragili e per nulla trasparenti nell'attesa che, rinforzati gli affari, si possa irrobustire anche la politica - come nucleo di potere e di autorità. Questo è il "caso" e non il rumore. "Era tutto un "Ciao Piero", "Ciao Massimo"" Ora è utile una seconda scena. Perché, sostiene Stefano Ricucci, si comprende la morale della favola. Una morale innocua, "giusta", sostiene. Via Barberini, Roma. Il quartier generale di Francesco Gaetano Caltagirone. Dal 14 luglio del 2005, sono al lavoro i sette del "contropatto" della Banca Nazionale del Lavoro. Sono lì chiusi da quattro, cinque giorni. Se la devono sbrigare con Gianni Consorte e Ivano Sacchetti di Unipol. Questa è la verità di Stefano Ricucci: "... Dotto', chi parlava con la Banca d'Italia con il Governatore (Fazio), chi con Francesco Frasca (capo della vigilanza), quell'altro parlava con Fassino, quell'altro ancora parlava... Era un tutto "ciao Piero", "ciao Massimo". Non è che per me non sia positivo. In fondo, quell'operazione è un vantaggio politico, una fusione politica, un concetto del genere l'accetto, è una cosa buona... Poi, scusi eh!, Consorte si compra Bnl con i suoi soldi. Ne aveva i mezzi perché consideri che Unipol ha fatto un aumento di capitale di 2 miliardi e 6 di euro. Assolutamente sottoscritto, eh! ... Che Unipol avesse avvertito prima e dopo e durante Fassino e D'Alema o quant'altro è pure giusto, ma che Caltagirone è il suocero di Casini e non l'avverte? Scusa, eh! Parlavano al telefono sempre, lì davanti a me. Caltagirone parlava con il suo genero di assegni, era tutto pubblico, noi stavamo lì davanti a tutti...".
Ricucci, il furbetto, è arrivato al consesso con un'idea in testa, bella tosta e golosa: "Il prezzo fissato ad azione, era 2,40 euro. Volevano vendere a 2,40, gli altri. Tutti d'accordo. Io m'impuntai. Consorte salì a 2,70. Io dissi: se volete io vendo a 3 euro. Non è che mi potete convincere... Se voi volete, vendete voi, vorrà dire che io non vendo... Fecero l'iradiddio per due giorni, fino a quando Caltagirone mi dice: "Guarda, è un'operazione di sistema, è di qua, è di là"".
martedì, giugno 05, 2007
Quadri confiscati dai nazisti ritrovati a Zurigo

2 giugno 2007 - 16.53
Quadri confiscati dai nazisti ritrovati a Zurigo
Didascalia: «Boulevard Montmartre. Primavera», un altro dipinto di Pissarro rubato dai nazisti e ora esposto nel museo Israel a Gerusalemme (Keystone)
La giustizia svizzera ha trovato in una cassetta di sicurezza di una banca quattordici dipinti di maestri della pittura, confiscati dai nazisti per la collezione di Hermann Goering.
La scoperta è avvenuta nell'ambito di una doppia indagine aperta in Germania e nel Liechtenstein attorno allo storico dell'arte Bruno Lohse, morto di recente.
La giustizia svizzera ha aperto in una banca a Zurigo una cassaforte piena di capolavori della pittura che erano stati confiscati dai nazisti per la collezione di Hermann Goering, ha fatto sapere venerdì il giornale tedesco Süddeutsche Zeitung.La scoperta è stata confermata da Ivo Hoppler, il giudice incaricato dell'indagine scattata in seguito ad una richiesta di assistenza giudiziaria da parte della Germania e del Liechtenstein.«Confermo che abbiamo trovato dei quadri di maestri della pittura e che sono stati messi sotto sequestro», ha dichiarato Hoppler all'agenzia AFP.Secondo il giornale tedesco, che riprende informazioni del settimanale svizzero tedesco Cash, due inchieste aperte in Germania e nel Liechtenstein sul noto storico dell'arte Bruno Lohse che hanno condotto alla scoperta.
Uno storico dell'arte al servizio di Goering
Lohse è morto nel marzo scorso a Monaco di Baviera, all'età di 95 anni, quando l'inchiesta era già stata avviata. Durante la Seconda guerra mondiale è stato responsabile della confisca di oggetti d'arte sottratti a proprietari ebrei e destinati alla collezione privata di Hermann Goering, una delle figure di primissimo piano del regime nazista in Germania.Dopo la guerra Bruno Lohse era stato condannato a 10 anni di prigione per le sue attività nazionalsocialiste, ma in seguito non aveva più fatto parlare di sé.Secondo la stampa, la cassaforte è stata affittata nel 1978 nella sede principale della Banca cantonale di Zurigo. Conteneva 14 dipinti, firmati da maestri della pittura quali Dürer, Pissarro, Monet, Renoir, Sysley, Kokoschka e Van Kessel. Ogni opera vale vari milioni di euro.
L'inchiesta in Germania
In Germania l'inchiesta è stata avviata in seguito alla denuncia di una donna, nipote dell'editore ebreo tedesco Samuel Fischer, al quale i nazisti aveva sottratto un dipinto di Camille Pissarro dal titolo «Il quai Malaquais. Primavera».La sua famiglia aveva cercato invano dopo la guerra di recuperare il quadro. Nel gennaio scorso, due uomini hanno avvicinato la donna a Zurigo, con la foto del quadro, indicandole che sarebbero stati disposti a venderglielo per il 18% del suo valore.La donna non ha dato seguito all'offerta, ma ha sporto denuncia a Monaco, città d'origine di uno dei due uomini, un mercante d'arte. La procura pubblica di Monaco ha aperto un'inchiesta per l'ipotesi di ricatto.
L'inchiesta nel Liechtestein
Nel Liechtenstein l'inchiesta è stata aperta in seguito ad una denuncia sporta da una fiduciaria che gestisce la fondazione Schönart (Belle Arti), appartenuta a Lohse.La fiduciaria è stata mossa dal sospetto che le opere d'arte dichiarate nell'inventario della fondazione e depositate a Zurigo fossero di origine illecita.La chiave della cassaforte era depositata a Vaduz, nella sede della fiduciaria, mentre il mercante d'arte di Monaco aveva una procura per farne uso. L'uomo si sarebbe recato più volte a Zurigo e avrebbe anche misurato e fotografato i dipinti.Secondo il giudice istruttore elvetico, l'origine di almeno uno dei dipinti è sicura, mentre delle ricerche sono in corso per stabilire la provenienza delle altre opere. Ancora non è noto se il dipinto «Il quai Malaquais. Primavera» si trovi tra i quadri ritrovati a Zurigo.
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